Dio è morto e Tre manifesti a Ebbing, Missouri vuole riproporre questa tesi. Solo un male supremo, forgiato da fiamme infernali, può essere capace di stuprare un’anima innocente, a cui ha appena dato fuoco. Mildred Hayes (Frances McDormand), madre di quell’anima innocente, è un personaggio agro, che usa lo sfogo violento come emanazione anarchica dei suoi sentimenti repressi, grida e si ribella alla supremazia. Vuole farsi giustizia da sola, come se pensasse di essere protagonista di un film western (genere a cui la colonna sonora tematicamente rimanda) e questo perché le forze dell’ordine non hanno più potere di quanto ne possa avere lei da sola. Blasfema, in un certo senso, nei confronti delle “regole della buona società” e, vista come tale, è nell’occhio di un ciclone in cui trascina anche il figlio.

Se infatti lo sceriffo (Woody Harrelson) decide di porre fine alla sua vita, perché malato terminale, lei ne è colpevole nel pensiero della gente ottusa di Ebbing. Una popolazione ancora timorata da ciò che la divisa può rappresentare che sia quella di un prete, un dentista o un poliziotto. L’essere umano però, è capace di scindersi e quindi di andare oltre l’abito che può indossare. L’agente Dixon (Rockwell) è effettivamente un personaggio osceno, temibile per la sua idiozia e per i suoi ideali omofobi e razzisti, timoroso di tutto ciò che può non rientrare in certi canoni, iracondo e violento. Improvvisamente, in quello che è uno dei risvolti più significativi dell’intreccio narrativo, viene licenziato dal nuovo sceriffo e spogliatosi della divisa prende coscienza di sé, tornando ad essere prima di tutto un uomo.

Tutti i problemi della cittadina sorgono quando Mildred decide di porre delle domande provocatorie su quelli che sono diventati, fino a questo momento, uno degli emblemi del consumismo: i manifesti, protagonisti taciturni. Il film si apre con il ritorno a casa di Mildred, mentre guarda dai finestrini della macchina osserva, forse per la prima volta, le potenzialità che potrebbero avere quei cartelloni in disuso dalla fine degli anni ottanta.

All’interno di una società omologata e borghese in cui un dolore può essere peggio di un altro, una persona può valere più di un’altra, lo slogan (come scrisse Pasolini in Analisi linguistica di uno slogan): “è la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica.  […] Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata: al contrario, si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi […] i caratteri ideologici e estetici della espressività.”.

Infatti Martin McDonagh mette in scena personaggi che riescono ad esprimersi attraverso dialoghi densi di significati (anche usando una velata ironia) e che, nonostante le molte differenze, riescono, dopo l’affissione dei manifesti e del loro “spirito”, a trovare punti in comune. Lasciando così i manifesti alle spalle per viaggiare verso quello che ci sarà dopo. Se un dopo ci sarà.