Alla fine è tutta una questione di corpi Disco Boy, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Giacomo Abbruzzese, premiato per la fotografia di Hélène Louvart all’ultimo festival di Berlino. Contributo fondamentale vista la natura del film, che fa della dimensione visiva il mezzo per raggiungere una stilizzazione che trasformi il particolare in universale, la storia personale in storia collettiva.

Corpi, dunque. Senza patria, senza un posto nel mondo, come quello del protagonista Aleksei (Franz Rogowski, che dopo Great Freedom si conferma uno degli attori più interessanti della sua generazione), che con il sodale Mikhail scappa dalla Bielorussia per arruolarsi nella legione straniera francese. Per cercare una nuova possibilità che si dimostra subito un miraggio; il corpo dell’amico troppo fragile per sopportare il viaggio.

Corpi “sans-papiers”, senza cittadinanza, che, come dice il colonnello reclutatore, non sono niente. L’esercito diventa allora la promessa di una famiglia, di un nome nuovo, di una nuova nazione a cui appartenere. La promessa di un’identità.

In cambio vuole corpi senza dolore, che non hanno diritto neanche a questo; corpi da  portare allo stremo, “finché i polmoni non esplodono”, come nell’addestramento militare delle giovani reclute. Corpi impossibili da abbracciare nella loro interezza, o indistinguibili l’uno dall’altro: sfocati, lontani, con divise tutte uguali, spezzettati dal montaggio in bocche, braccia, occhi. Irriconoscibili, ripresi con le termocamere: solo il calore corporeo distingue tra vivi e morti, tra vittime e carnefici.

Corpi che si vorrebbero senza pensieri, meri esecutori di ordini. Corpi senza umanità, anche davanti alle atrocità più terribili, alla sofferenza di donne e bambini disarmati. Corpi stranieri chiamati a difendere e ad aiutare “prima i francesi”. Che non sono certo innocenti, emissari delle industrie di estrazione del petrolio che stanno devastando il Delta del Niger. Una natura meravigliosa ma dilaniata, dove l’acqua prende fuoco come fosse benzina.

C’è un inquadratura bellissima e terribile, l’unica che apre la visuale, che distoglie da questa ossessiva indagine di ‘pezzi’ e volti umani: è una panoramica dall’alto, sconvolgente, di una distesa di ciminiere che fumano sullo sfondo di una foresta segnata e sofferente (Abbruzzese, tarantino, conosce sulla sua pelle il problema dell’inquinamento industriale come dimostra il suo bel corto Fireworks).

Da questo inferno viene fuori il corpo altro di Jomo (Morr Ndiaye), leader del movimento per l’emancipazione del Delta del Niger con il sogno di danzare, un domani, sul palco di una discoteca. È il corpo delle radici profonde, di chi difende la propria terra devastata. Di un nemico con una propria identità a cui riconoscere umanità, anche nella morte. È questo l’incontro/scontro che cambia la prospettiva del protagonista: Jomo è un nemico in cui rispecchiarsi, con cui fondersi fino a diventare un’unica entità.

Più il film procede, più si accentua la sua dimensione onirica e astratta, più diventa difficile distinguere tra sogno e realtà, tra azioni reali e simboliche. E se alla fine i corpi non sempre riescono a diventare personaggi (la sorella di Jomo, per esempio), talmente stilizzati da risultare inconsistenti, il messaggio arriva comunque forte e chiaro. Riconoscersi nell’umanità dell'altro significa riappropriarsi della propria umanità.

Rinunciare all’identità fasulla promessa dal colonello della legione straniera permette al protagonista di riappropriarsi del proprio corpo, sottraendolo a chi lo pretende come carne da macello, come sangue da versare per la patria.