L'incanto de Il racconto dei racconti si rompe, catapultandoci nello squallore di una periferia romana della metà degli anni '80. In questo Dogman di Matteo Garrone, parabola di calore canino più che umano e isolamento, rabbia e desolazione, c'è qualcosa di terribilmente umano, tragico e delicato, angoscioso e umoristico. Non si tratta di suggestioni immediate, sono piuttosto la carne, il corpo mutilato e il volto esangue di Marcello Fonte a suggerircele, a formulare la disperata richiesta di aiuto e ascolto di un reietto; perché, d'altra parte, il suo status sarà questo, rimarrà immutato, qualsiasi cosa avrà intenzione di fare per redimersi. Spettatore inerme delle ferite inflittegli dagli altri (e alla fine da sé stesso), Marcello è un outsider dall'aria trasognata e a tratti comica, vive la periferia della Magliana ma, nel contempo, ne è fuori; non prende parola durante gli incontri con i negozianti del quartiere, collocandosi sempre un passo indietro, uno sguardo indietro. Legge i risvolti della realtà a partire da una posizione privilegiata, quella di chi prende le distanze da ciò che è per comprenderlo, o forse semplicemente osservarlo. E Marcello osserva tantissimo, pur vivendo l'altrove della sua toelettatura per cani, lo spazio altro in cui conserva una specifica individualità.
In questo senso, l'epilogo è chiarissimo nei risvolti della visione ultima e allucinata del protagonista: attraverso quel gesto, ormai lontano da una condizione che gli assicurava una qualifica, un qualsivoglia adeguatezza al mondo, Er Canaro afferma la sua esistenza, "urla" il suo posto nel mondo, il suo Io, ma c'è chi gioca a calcetto e non lo ascolta, oscurandone l'identità, ignorandola, calpestandola. Ma poi sembra quasi che Marcello rinvenga. Non c'era nessuno sul campo da calcio, era tutto nella sua testa e le battute finali di Dogman, primo piano dilatatissimo e totale sul suo isolamento, ne rendono ancora di più il vuoto, la totale mancanza di appigli, un sentimento che Garrone contempla fin da Reality. Cupo e favolistico, Reality è il racconto di Luciano, un pescivendolo napoletano che coltiva il sogno di entrare al Grande Fratello. Anche Luciano, come Marcello, desidera che gli altri lo riconoscano, ammirino, che gli vogliano bene e quale miglior opportunità del Grande Fratello per sentirsi davvero qualcuno, condizionato da una vacuità e misera da sempre presenti nella sua vita?
Ebbene, attraverso le storie di Luciano e Marcello, Garrone ne trasmette la condizione di solitudine come separazione e distacco, pervasa di una malinconia che scivolerà nelle pieghe della disperazione, quell'ultima, soffocata e inascoltata chiamata verso di sé, da parte del Canaro. Surclassando volutamente il fatto di cronaca, Dogman individua le contraddizioni di una vicenda che proprio nel meccanismo ancestrale vittima – carnefice trova la sua ragion d'essere. Ma gli interessa, soprattutto, la complessità di un personaggio che è sia l'una che l'altra cosa, in un racconto dove eros e thanatos si coniugano in una sintesi malata (è Marcello che prima ferisce l'ex-pugile, Simoncino, e poi lo medica, scusandosi) e in cui poi il nostro diverrà solo vittima, vittima di sé stesso, delle sue lacune e assenze, del bisogno costante di sentirsi apprezzato e voluto bene.