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“Io Capitano” e l’umanità dell’eroe ingenuo

Un coming of age concentrato nel tragitto fra il Dakar e le coste della Sicilia, durante il quale il disincanto di un adolescente viene temprato dalla crudeltà degli uomini per trasformarsi rapidamente in senso di responsabilità e propensione al sacrificio. Dopo i successi ottenuti con la sua trasposizione di Pinocchio (2018), Garrone tesse nuovamente le trame di una fiaba in cui il protagonista ingenuo intraprende un viaggio in cui deve confrontarsi con creature mostruose che ricambiano la sua fiducia con l’inganno e puniscono la sua innocenza con il dolore.

La poetica del desiderio. Un bilancio del cinema di Matteo Garrone

Quella di Matteo Garrone è una carriera estremamente interessante da studiare in un’ottica di sperimentazione e di eclettismo. Nei suoi oltre vent’anni di carriera Garrone ha cambiato genere cinematografico molte volte, finendo così per essere associato non tanto ad una tipologia di racconto, quanto ad una precisa prospettiva artistica sul mondo. Garrone non ha studiato cinema; la sua formazione è nella pittura e ciò è evidente in tutti i suoi film.

“Gomorra” tra passato e presente

Non c’è mai una via d’uscita o una possibilità di cambiamento, tutti i personaggi centrali alle quattro storie narrate vivono all’interno di un universo che non lascia scampo, né scelta. O meglio la scelta c’è e sta tra la vita criminale che non porterà altro che morte e tradimento e il vivere una vita di patimenti e vessazioni lontano dalla camorra. Forse il più grande pregio di Gomorra è stato l’essere in grado di mostrare il problema di questa terra su di un livello locale, dove tale sistema marcio si pone come unica opzione di vita possibile, ma anche di portarlo altrove, alle aziende del Nord Italia e all’alta moda mondiale, ad una dimensione glocal che è proprio quella che conferisce a tali organizzazioni un grandissimo potere economico e criminale.  Citando Garrone, in collegamento telefonico con il pubblico dell’Arena Puccini, chi ha amato il film nel 2008 continuerà ad amarlo in questa versione, che è solamente un po’ più esplicativa, ma mantiene lo stesso identico impianto della versione precedente.

 

“Pinocchio” e lo sguardo che scivola

La storia di Pinocchio, il burattino di legno poco coscienzioso che cigola e scricchiola continuamente, la conosciamo bene, ma questo film risulta essere l’adattamento più fedele rispetto l’opera di Collodi, senza però dimenticare gli altri rifacimenti cinematografici e televisivi che ingloba e trasforma in un’incanto poetico per gli occhi. L’Omino di burro, il giudice-gorilla, il Corvo e la Civetta, Medoro e i più noti come la Fata turchina, il grillo-parlante e Lucignolo si animano e come i burattini di Mangiafuoco si mettono in scena usando le parole del Collodi-Garrone che li dirige mantenendo intatta l’anima di ciascuno e ne cura le fattezze in modo tale che rimangano ben impresse, per il futuro, le loro immagini nelle menti dei suoi spettatori.

“Pinocchio” di Matteo Garrone e le maschere dell’ossessione

Per Matteo Garrone, l’appuntamento era inevitabile: Pinocchio è un’ossessione infantile, naturale chiave di lettura per capire un’intera filmografia, tappa di approdo e ripartenza di un autore arrivato qui al termine del decennio in cui ha esplorato, setacciato, ripensato il versante nero della favola (Reality, Il racconto dei racconti, Dogman). Pinocchio è fatto della materia di cui sono fatti i sogni oscuri di Garrone, dal borgo di Geppetto che richiama la desolazione materica dell’orizzonte esistenziale del Canaro all’allegoria da reality della crudeltà contenuta nel perimetro pedofilo del Paese dei Balocchi.

“Dogman” e la solitudine come separazione

In questo Dogman di Matteo Garrone, parabola di calore canino più che umano e isolamento, rabbia e desolazione, c’è qualcosa di terribilmente umano, tragico e delicato, angoscioso e umoristico. Non si tratta di suggestioni immediate, sono piuttosto la carne, il corpo mutilato e il volto esangue di Marcello Fonte a suggerircele, a formulare la disperata richiesta di aiuto e ascolto di un reietto; perché, d’altra parte, il suo status sarà questo, rimarrà immutato, qualsiasi cosa avrà intenzione di fare per redimersi. Spettatore inerme delle ferite inflittegli dagli altri (e alla fine da sé stesso), Marcello è un outsider dall’aria trasognata e a tratti comica, vive la periferia della Magliana ma, nel contempo, ne è fuori; non prende parola durante gli incontri con i negozianti del quartiere, collocandosi sempre un passo indietro, uno sguardo indietro. Legge i risvolti della realtà a partire da una posizione privilegiata, quella di prende le distanze da ciò che è per comprenderlo, o forse semplicemente osservarlo.

“Dogman” e lo spazio come personaggio

Nel momento in cui molti autori esplorano la periferia romana con un forte ancoraggio al realismo (Non essere cattivo, Il più grande sogno, Fiore…), Garrone l’ha trovata ai confini di Castel Volturno, sottolineando ancora una volta una sensibilità artistica unica nel sublimare la realtà al crocevia dell’immaginazione. Come Reality, che edificava il suo incubo onirico nel cuore di una decadente Napoli già principesca, e più di quanto accadesse ne Il racconto dei racconti, quasi imprigionato nei maestosi castelli dove costeggiare il formalismo dell’esercizio di stile, Dogman rende più che mai personaggio lo spazio. Ovvero l’ipotesi di una Roma marginale e disgraziata, pennellata dai pochi cromatismi dell’incredibile fotografia di Nicolaj Brüel, una terra desolata, opprimente, sudicia, ripresa spesso in campo lungo.

“Il racconto dei racconti – Tale of Tales”: dibattito critico

Le reazioni a Il racconto dei racconti – Tale of Tales di Matteo Garrone sono a dir poco contrastanti. Mentre a Cannes, il film del regista italiano si gioca le sue chances per i premi finali, in Italia divampa il dibattito critico sul film. In proiezione al cinema Lumière, l’opera viene analizzata, con diversi approcci e differenti giudizi, dai collaboratori di Cinefilia Ritrovata.