Presentata come evento fuori concorso qui alla Mostra del cinema di Venezia, Don’t Worry Darling, opera seconda di Olivia Wilde, porta con sé una non trascurabile dose di interesse vista la brillantezza mostrata dall’attrice statunitense con il La rivincita delle sfigate (Booksmart), suo esordio registico. Rispetto alla teen comedy del 2019, questo nuovo progetto ha mostrato fin da subito di possedere una maggiore ambizione, palesando la volontà di volersi rifare alla satira fantascientifica di Peter Weir e Frank Oz. La scrittura è nuovamente affidata a Katie Silberman, la quale ha dovuto confrontarsi con il compito non facile di strutturare una distopia basata su elementi già ampiamente sfruttati dal cinema del passato e che avrebbero necessitato di un minuzioso lavoro di risemantizzazione per non scadere nel limbo del derivativo e dell’obsoleto.

Malgrado la ferrea volontà di ancorare il discorso alla contemporaneità, e quindi di aggiornare le tematiche implicate in tali meccanismi, il rischio della ridondanza viene solamente circoscritto ma purtroppo non evitato. Don’t Worry Darling è un film che conferma il gusto estetico di Wilde, ma che, a fronte di un coefficiente di difficoltà decisamente più elevato, tradisce uno stile ancora acerbo ed incapace di gestire al meglio la complessità di un soggetto high concept che pecca di pretenziosità in relazione a quanto ha da offrire. L’aspirazione sarebbe quella di costruire un film sufficientemente accessibile al grande pubblico, ma ricoperto di una patina sofisticata, declinata secondo i criteri di un cinema di denuncia sociale adeguato agli urgenti temi dell’uguaglianza di genere e dell’autodeterminazione femminile. Aspetti delicati quanto travisabili, ai quali il film pare approcciarsi con un eccesso di timore reverenziale, mantenendosi ad una salvifica distanza ma al contempo incespicando in uno schematismo che rischia di vanificare qualsiasi velleità eversiva del discorso.

Nello specifico si fa riferimento al contesto di fondo, l’idilliaca cittadina di Victory Town, popolata da famiglie altoborghesi composte da mariti arruolati per un misterioso progetto e mogli subordinate ad una condizione di servilismo, il cui scopo è quello di garantire una vita domestica agiata ai rispettivi uomini. Una distribuzione di ruoli apparentemente accettabile se non addirittura piacevole per l’intera popolazione, perlomeno fino al momento in cui iniziano a verificarsi una serie di interferenze che portano la giovane casalinga Alice (Florence Pugh) ad interrogarsi sulla realtà che la circonda, sul suo ruolo all’interno di essa e sulle verità celate dal compagno Jack (Harry Styles).

Le implicazioni già lampanti in questa premessa, e riguardanti la concezione del benessere borghese in quanto ambiente confortevole all’apparenza ma costrittivo e deleterio nella realtà dei fatti, non trovano però spazio per evolversi in un intreccio maggiormente ramificato e finiscono per esaurirsi in una ridondante affermazione del medesimo concetto. Laddove il ribaltamento tra idillio e catastrofe avrebbe dovuto essere operato in maniera graduale e consapevole dell’infinità di sfumature presenti tra i due poli contrapposti, Wilde e Silberman si accontenta di un’opposizione speculare fin troppo facile e non sufficiente a restituire una chiara riflessione. Curioso come proprio quel concetto di corrispondenza simmetrica aspramente criticato sul piano sociale e da cui Alice tenta di evadere sia lo stesso utilizzato in chiave narrativa per delineare e risolvere il rapporto tra realtà sintetica e realtà naturale. Se la “grazia attraverso la simmetria” risulta un meccanismo comportamentale deleterio, lo stesso assunto applicato alle possibilità del racconto non produce esiti migliori.

In questo senso Don’t Worry Darling risulta imprigionato dalla necessità di affermare le proprie convinzioni in maniera netta e inequivocabile, e per raggiungere il proprio scopo si permette di sacrificare profondità e stratificazione ottenendo un risultato controproducente, lasciando così il rammarico per un’occasione mancata.