Don't Worry, He Won’t Get Far on Foot (Non preoccuparti, non andrà molto lontano a piedi), da qui deriva il titolo del film (e della biografia da cui è tratto) e già da qui si respira il cinismo beffardo e autoironico che segnerà l’intera carriera del vignettista John Callahan, scomparso nel 2010 a 59 anni.. Dopo una giovinezza passata tra i fumi dell’alcol, abbandonato a se stesso, John Callahan, resta tetraplegico a seguito di un devastante incidente d’auto. Tuttavia, più della perdita di mobilità, più dell’assenza di autonomia, è l’alcol, il vero nemico da sconfiggere.

Deciso a non lasciarsi andare, entra a far parte di una comunità di ex alcolisti, che lo aiuteranno (ed è soprattutto su questa fase della sua vita che si sofferma il film) attraverso un lungo e articolato percorso, a riappropriarsi del controllo su se stesso. Così, una passione per il disegno manifestata da ragazzino e seppellita nei meandri di una infelicità alcolica, ritorna fuori, molti anni dopo, sotto forma di vignette, geniali, salaci, ciniche, scorrette e divertentissime, che consentono a John Callahan di ridare un nuovo senso alla sua vita.

Van Sant ama spesso abitare quel luogo situato fra il reale e l’immaginato. Un luogo dove l’invenzione fantasiosa, spesso allegorica o metaforica, carica il dato reale di significati problematici e rende gli aspetti più irreali e immaginativi, tangibili e concreti. Ne diede prova in modo plateale con Last Days (2005), e più recentemente con L’amore che resta (2011), fino a farne quasi una dichiarazione di poetica con il suo ultimo film, La foresta dei sogni (2015), dando a quel luogo addirittura una dimora fisica e attraversabile.

Non di meno, anche in questa pellicola, certamente un biopic rigoroso e aderente ai fatti reali, è emblematica l’ombra di una mano che compare ad un certo punto, sulla spalla del protagonista: un evento irreale ma non per questo meno vero nella mente del protagonista, che sente così infondersi un coraggio inaspettato, una  fiducia nelle sue possibilità che proviene da un altrove non meglio identificato, forse proprio da quella madre che non c’è mai stata ma la cui assenza ora sembra materializzarsi. Un piccolissimo accenno visionario che, mentre aiuta a dare tridimensionalità al personaggio e alla sua lotta tutta interiore per ridestarsi, ci dice molto anche dell’universo poetico del regista di Portland e della sua idea di cinema.

Il film è girato come sempre in modo molto libero, giocando con gli stilemi di ripresa tipici del documentario, macchina a mano, zoom, brevi passaggi fuori fuoco, utilizzati soprattutto per riprendere dall’interno la comunità degli alcolisti, alternate con riprese di più ampio respiro e split screen di forte impatto, secondo una eterogeneità di stili di ripresa, che Van Sant ha già ampiamente sperimentato nel corso degli anni.

Joaquin Phoenix, si dà con grande generosità al personaggio, regalando una intensa, vitale e coinvolgente interpretazione, misurata e molto più sfumata di quanto solitamente accada in questo tipo di ruoli. Fra i molti comprimari eccellenti, spiccano Rooney Mara, figura salvifica, che infonde fiducia e sorrisi in un dramma umano che sembra senza rimedio e Jack Black, magnificamente in bilico fra il tragico e il comico, che scioglie in un abbraccio finale un senso di colpa mai elaborato.

 

Piccola notazione a margine: primo fra tutti a voler mettere in scena la biografia di Callahan, tanto da acquisirne i diritti diversi anni fa, fu Robin Williams, ed è impossibile non avere un sussulto quando alla fine, leggiamo che il film è dedicato alla sua memoria.