Cinefilia Ritrovata prosegue la sua ricognizione sul cinema italiano contemporaneo. Come sembra suggerirci il titolo, la vera protagonista di Dove non ho mai abitato è una casa. È una dimora lontana dalla città, incastonata tra le montagne e il lago. Massimo (Fabrizio Gifuni) l’ha ristrutturata per conto di una giovane coppia dell’alta borghesia torinese: due ragazzi forse oziosi ma con un fondo di bontà che permette loro di amarsi senza pregiudizi. Per questa vita privilegiata, l’architetto ha immaginato una struttura fatta di legno e vetro, in armonia e dialogo con l’ambiente circostante. La casa in cui lui abita, invece, nel tessuto della città più austera, è il manifesto della sua esistenza provvisoria, senza legami ufficiali, con alcuni scatoloni all’ingresso a comunicarci il senso di un pensiero che ha paura di affrontare.
Quanto passato può accogliere un loculo anonimo, perfino inospitale come questo piccolo porto di un’inquietudine repressa, totalmente opposto a quello altrettanto elegante ma vissuto del fratello, padre di famiglia? Mai quanto quello che alberga negli appartamenti di Francesca (Emmanuelle Devos è una presenza che non si dimentica), architetto e figlia di architetti, moglie e madre annoiata che non esercita la professione da vent’anni. Anzi, sono case che non le appartengono: l’una, a Torino, è dominata da suo padre, il vegliardo Manfredi (Giulio Brogi), capo di Massimo; e l’altra, in Francia, da suo marito finanziere. Francesca è italo francese, parla un italiano incidentato e straniante che la rende un corpo estraneo, incapace di instaurare serene relazioni umane. Quando Manfredi impone la fragile figlia al talentuoso figlio mancato nei lavori per la casa di legno e vetro, lei sente di essere respinta: ma è proprio dentro la casa in cui non abiteranno mai che i due occasionali collaboratori possono ipotizzare e consumare il loro amore. In un luogo pensato per una vita altrui, questa coppia immagina una vita senza la loro stessa vita.
In fondo è proprio dentro il perimetro di un cantiere che il mélo, soffocato e supposto nelle fredde e benestanti mura degli appartamenti in centro, può esplodere come un desiderio finalmente cadenzato sulle note di un blues all’alba. Ed è la musica a dare la misura di un amore destinato a svanire. Già nel precedente, confuso, irrisolto E la chiamano estate, il cinema di Paolo Franchi aveva dimostrato un uso disinvolto dell’elemento musicale: qui il fantasma di Giorgio Gaslini (sui titoli di cosa accreditato come “artista ed amico”) ci riporta tra le pareti de La notte e quello di Chet Baker accompagna Francesca e Manfredi alla ricerca di qualcosa che solo My Funny Valentine sa suggerire, mentre Pino Donaggio incede nel racconto con la ferocia del thriller depalmiano.
Con una lucidità davvero rara nel cinema italiano, Franchi – finalmente giunto ad una maturità espressiva della sua impetuosa autorialità – isola i volti entro angusti primi piani carezzati dalle luci di Fabio Cianchetti e ha il coraggio di dare fiducia ad una vera storia d’amore. Il tanto cinema, inconscio o esplicito, dentro Dove non ho mai abitato odialoga, appunto, consapevolmente con il mélo del passato. E sembra muoversi nel solco di Valerio Zurlini più che di Douglas Sirk, dal quale comunque mutua il domestico perturbante del décor. Ma, al di là dei pegni, la cosa più esaltante del film di Franchi è l’intimità coi feticci del genere: gli ultimi minuti abbondano di ascensori dagli interni fiammeggianti, scale infinite, lettere d’addio, finestre come sipari e fanno incontrare questo melodramma morbido e geometrico al crocevia di una crudeltà spietata come sa essere solo l’amore che deve rinunciare a se stesso.