Philadelphia, 1999. Le giovani Jamie e Marian sono in fuga verso Tallahassee con un carico inaspettato nel baule, sono braccate da due sicari imbranati, si amano tra bar lesbo, orge saffiche e un grosso, quanto improbabile complotto ai danni di un conservatore repubblicano.

Pastiche beffardo fino alla parodia, Drive-Away Dolls può contare sulle ottime performance di Margaret Qualley, corpo mobile e dionisiaco con caricaturale accento del Sud, della pudica e riflessiva Geraldine Viswanathan e di una straripante Beanie Feldstein, ma sono forse Bill Camp, Pedro Pascal e Matt Damon i personaggi più coeniani di tutti, prototipi di comprimari-macchietta finiti troppo presto nel solito tritacarne gangsteristico.

Se escludiamo un gustosissimo prologo derivativo, le musiche di Carter Burwell e la scrittura di Ethan, in parte oscurata dall’enfasi queer della moglie Tricia Cooke, rimane ben poca sostanza, poiché l’intreccio pulp è stemperato, nella sua componente più caustica, da una progressione narrativa che “predica” la stessa identica cosa dei soggetti agenti, giusto per usare un riferimento retorico.  

“La forza dei personaggi deve superare l’intreccio”, ha affermato il minore dei Coen in riferimento a Dashiell Hammett, modello letterario imprescindibile per i registi di Minneapolis; in realtà, più che superarlo, sembra avvitarsi su di esso, come se la vis di buoni e cattivi che si esibiscono in un folle carosello inseguisse, attraverso iperboli saffiche intervallate da immagini psichedeliche e flashback orgasmici, un copione stanco e fin troppo studiato.

Opera tautologica di fatto e irriverente, ma solo nelle intenzioni, Drive-Away Dolls, ambientato nel periodo più crepuscolare dell’american dream, ha i toni della commedia grottesca e l’impeto caricaturale di Arizona Junior, ma la critica sociale si tramuta in un vaudeville trash che depotenzia la satira; non è così facile quindi sabotare il debordante immaginario conservatore a stelle e strisce come era avvenuto con Il grande Lebowski, soprattutto sfruttando un correlativo oggettivo – che non sveleremo per non rovinare la sorpresa – atto a identificare lo strapotere del maschio bianco, ricco e patriarcale.

Se il crimine picaresco contribuisce a creare una tensione comico-drammatica da film fieramente grindhouse, d’altra parte l’utilizzo dei generi per denunciare la corruzione del costume funziona poco, anche perché è difficile pensare che una carrellata monocorde di orge lesbo (più demenziali che pungenti) e situazioni paradossali, possano bastare a ritornare ai fasti del passato.

Drive-Away Dolls finisce per diventare un esordio traboccante di sesso scompaginato e poco pruriginoso, misto a un progressismo iconico che rimane tutto in superficie, incapace di scandagliare, ad esempio, il particolarismo etnico e regionale che aveva colorato avventure e disavventure on the road in terra di frontiera, o di affondare il pedale dell’acceleratore sul rovesciamento carnevalesco del mito americano.