Dal ritmo vivace e smaccatamente giocoso, il primo film da solista di Ethan Coen appassiona, diverte e provoca, anche se senza pungere mai davvero. Insieme alla moglie Tricia Cooke, coautrice della sceneggiatura e montatrice, Ethan Coen realizza una commedia, un b-movie a tinte queer solo apparentemente libero, imbrigliato, infatti, da una superficialità ostentata e da soluzioni visive e narrative spesso artificiose.

Ben lontano dai fasti della filmografia coeniana, Drive-Away Dolls sembra scimmiottarne i temi, recuperando tanti topoi che l’hanno contraddistinta. Come ne Il grande Lebowski, l’esca del film è una valigetta dal contenuto misterioso che finisce per caso nel portabagagli dell’auto noleggiata dalle due protagoniste: la disinibita Jamie (Margaret Qualley) e la più casta Marian (Geraldine Viswanathan).

In viaggio verso Tallahassee in Florida, dove hanno in programma di fare birdwatching con la zia di Marian, tra un locale lesbo e l’altro, le due ragazze restano invischiate in una vicenda dai risvolti grotteschi.

Drive-Away Dolls è il primo film di finzione di Ethan Coen senza il fratello Joel e mostra chiaramente come il suo apporto decisivo alla loro filmografia fosse soprattutto la tensione ironica, elemento imprescindibile di tutta la loro opera. Non a caso il primo film da solista di Joel, Macbeth, ne è completamente privo, modellato da un rigore formale estremo e a tratti legnoso. Nella separazione fisica dei due fratelli c’è anche una scissione estetica che rivela come le loro tematiche siano complementari e necessitino l’uno dell’altra.

Al contrario di Macbeth, Drive-Away Dolls è dichiaratamente leggero, tanto da gridarlo allo spettatore persino attraverso le macchinose scelte di montaggio, con transizioni che qualcuno beffardamente ha associato a quelle di Power Point. Il risultato in ogni caso è un film frizzante dai molteplici riferimenti, dal noir al b-movie americano anni ’60 - ’70, completamente folle, ma non troppo. L’impressione è di osservare un tentativo di sbrigliamento immaginativo che però resta sempre scialbo, incagliandosi nel prevedibile, nel già visto. L’intento, spesso provocatorio, non è mai davvero sferzante, nonostante sia evidentemente questa l’intenzione.

Il film comunque riesce ad offrire al pubblico ottanta minuti di briosa leggerezza, seguendo le due protagoniste in una sorta di Thelma e Louise omosessuale e psichedelico. Spicca sicuramente l’interpretazione Margaret Qualley nel ruolo della texana esuberante e ossessionata dal sesso Jamie. A differenza di altri ruoli, come quello che l’ha impegnata più di tutti nella splendida miniserie Maid, qui può mostrare un altro lato del suo talento e della sua versatilità in un’interpretazione volutamente sopra le righe, fino a risultare caricaturale e cartoonesca.

Il tema centrale della pellicola è sicuramente la liberazione sessuale con richiami sessantottini e Jamie, per la quale ogni occasione è buona per infilarsi in un locale lesbo, ne è l’esuberante rappresentazione. I personaggi femminili colorano il film di una vivacità pulsionale e libera che si oppone alle poche figure maschili, invece stupide e violente. Fin dalla prima scena, in cui si vede il povero Pedro Pascal farsi spremere come un limone, seguendo la stessa sorte del suo personaggio in Game of Thrones, il maschile si connota come inutilmente brutale, insulso, in fondo soltanto patetico.

Da segnalare, oltre al divertente cameo di Matt Damon, anche un’improvvisa e inaspettata apparizione di Miley Cyrus, in un ruolo a dir poco curioso.