A proposito de I guerrieri della notte, si riassumeva l’importanza che Walter Hill ha avuto nella trasformazione del cinema d’azione americano fra gli anni Settanta e Ottanta, senza trascurare il decennio successivo, dove il regista ha continuato a imporsi sulla scena come uno fra i più abili artigiani del genere. Muovendosi fra generi come il poliziesco, il western e l’action puro (spesso mescolati con rara maestria), e facendo spesso tesoro della lezione del maestro Sam Peckinpah, Hill ci ha regalato autentici gioielli che continuano a fare scuola.

Ma prima ancora di imporsi nel panorama internazionale con The Warriors, il Nostro diresse nel 1978 un film essenziale per la nascita del neo-noir contemporaneo, Driver l’imprendibile (The Driver). Del resto, Walter Hill si era fatto le ossa in precedenza scrivendo le sceneggiature per vari noir diretti da altri registi, per cui era diventato nel frattempo uno specialista del genere e dei suoi canoni narrativi. Driver l’imprendibile è una pellicola contenente già in nuce l’abilità del regista nel girare le scene d’azione, ma che al contempo è un po’ un’opera aliena nella filmografia di Hill, spettacolare sì, ma anche asciutta ed essenziale, lontana dallo stile roboante e fracassone che avrebbe contraddistinto il suo futuro cinema: dal suddetto I guerrieri della notte al western I cavalieri dalle lunghe ombre, dai buddy-movie quali 48 ore e Danko a cult successivi come Ancora vivo. Quella di neo-noir è una definizione complessa e piena di sotto-filoni, impossibile da rinchiudere in una singola analisi, ma che in sostanza comprende il cinema noir riletto dal cinema moderno nelle sue varie sfaccettature, in un lasso di tempo che va dagli anni ’60 e ’70 ai giorni nostri, e di cui The Driver è appunto un film fondativo, insieme ad una manciata di altri film.

Walter Hill scrive soggetto e sceneggiatura, e ambienta la vicenda in un’anonima metropoli americana contemporanea, dove si intrecciano le storie di tre personaggi, lasciati volutamente senza nome ma chiamati solo con una definizione. Driver (Ryan O’Neal) è un esperto guidatore di automobili che si mette al servizio della malavita, facendo da autista ai rapinatori dopo un colpo, e permettendo così loro di sfuggire alla polizia grazie alla sua guida abile e spericolata. L’uomo ha un codice: non vuole spargimenti di sangue, garantisce il massimo dei risultati e pretende serietà. Alle sue costole c’è il Detective (Bruce Dern), un caparbio ispettore di polizia che cerca da anni di incastrarlo, ma senza averne mai le prove, e che finisce così col farne una questione d’orgoglio. Dopo una rapina a un casinò, la Giocatrice (Isabelle Adjani) lo vede bene in faccia, ma al commissariato nega di riconoscerlo, per cui il pilota stringerà in seguito un’alleanza con lei per sfuggire a una trappola. Il Detective ha infatti costretto tre malviventi a compiere una rapina pianificata, con lo scopo di cogliere Driver sul fatto, ma i banditi cercano di fregare sia la polizia che l’autista, il quale si trova così costretto a impugnare la pistola per avere il bottino e difendersi da un doppio nemico: i gangster e il poliziotto.

Driver l’imprendibile è un film che vive di varie anime, mai però in conflitto, bensì in simbiosi fra loro, grazie a una regia solida e sicura, la regia di un autore che conosce bene il genere e dimostra di saper dirigere un noir coi fiocchi: da una parte, c’è la componente più spettacolare dei forsennati inseguimenti automobilistici; dall’altra, c’è invece l’elemento più squisitamente noir – cioè lo scavo nella psicologia dei protagonisti e la rappresentazione del milieu criminale – un elemento che è predominante nella narrazione ed è piacevolmente intercalato dalle sequenze d’azione; infine, c’è il fattore visivo, quello formato dalle imponenti scenografie naturali della città (predominanti rispetto agli interni) e dalla fotografia contrastata di Philip H. Lathrop, nel quale ancora una volta lo sguardo del regista si rivela lungimirante e anticipatore di un certo tipo di cinema del decennio successivo.

Come si è detto più volte, il cinema di Walter Hill risente spesso dell’influenza di Sam Peckinpah, colui che fu in un certo senso il suo ispiratore – e ricordiamo che Hill scrisse la sceneggiatura del crime Getaway! (1972), uno tra i più rappresentativi film di Bloody Sam. Questo, fin da I guerrieri della notte, che trabocca di scene al ralenti durante i combattimenti, e via via proseguendo fino a quell’action-western mai abbastanza celebrato che è Ricercati: ufficialmente morti. Eppure, in The Driver non sembra esservi traccia alcuna del cinema di Peckinpah. La storia, che potrebbe in parte richiamare quella di Getaway!, è in realtà agli antipodi rispetto al precedente lavoro scritto da Hill: la regia fugge da ogni suggestione legata all’heist-movie o alla messa in scena delle rapine, tant’è vero che le medesime sono riprese soltanto nei loro momenti iniziali o conclusivi, lasciando volutamente fuori il momento clou dell’azione dei rapinatori.

Di ralenti non ce n’è nemmeno uno, e anche i mirabolanti inseguimenti in auto, ricchi di soggettive, inversioni di marcia e car-crash, sono girati in modo asciutto, essenziale, proprio in virtù di quel coté realistico che il Nostro ha voluto imprimere a questo suo film, decisamente più un noir che un film d’azione. Un carattere secco ed essenziale che permea ogni istante del film, sostenuto da una sorta di struttura archetipica che conduce Hill addirittura a non chiamare i protagonisti per nome, ma solo con l’etichetta del ruolo che rivestono, come se The Driver volesse essere una sorta di prototipo del cinema noir.

Sicuramente, i fan delle corse automobilistiche – un retaggio cinematografico del decennio che andava a concludersi, i seventies, che avevano visto nascere film seminali come il road-movie Punto zero – saranno entusiasti, viste le coreografie spettacolari che la regia ha saputo mettere in scena: fondamentalmente gli inseguimenti sono due, uno verso l’inizio e l’altro che porta verso la conclusione, in una sorta di struttura speculare, più un’esercitazione in un parcheggio sotterraneo. Il primo vede Driver accogliere a bordo di un’auto – rigorosamente rubata, come fa prima di ogni azione – due malviventi dopo una rapina al casinò (lasciata completamente fuori scena): non c’è musica (ecco l’essenzialità che dicevamo), solo le sirene della polizia, le quali accompagnano un montaggio nervoso, frenetico e invisibile fra l’interno dell’auto, le soggettive del pilota che vede la strada sfrecciare di corsa, panoramiche sull’inseguimento, scontri e auto della polizia ribaltate.

Il secondo presenta più o meno le stesse caratteristiche, con il pilota insieme a Isabelle Adjani intento a inseguire i malviventi che hanno rubato la borsetta alla donna, contenente una preziosissima chiave (la sceneggiatura è minuziosa e narrativamente ricchissima), fino al redde rationem coi due banditi in un enorme casermone dismesso. In questo secondo round, le musiche di Michael Small – stridenti, e quasi richiamanti il Morricone argentiano – fanno capolino, ma in modo sempre dosato, quasi ridotto all’osso, mentre risulta basilare come prima la cosiddetta “colonna rumori”, fatta di scontri, frenate, lamiere e vetri rotti. Le auto sfrecciano nella livida metropoli, con una magistrale fotografia contrastata fra il buio e le luci della città, spesso al neon, dando vita così a un immaginario visivo che anticipa un certo tipo di cinema degli anni Ottanta, per esempio l’altrettanto gigantesco Strade violente di Michael Mann, un altro film seminale per il neo-noir.

I personaggi di Driver l’imprendibile non solo però quelli di un action o di un poliziesco: pensiamo, giusto per rimanere al cinema di Hill, al carattere scanzonato e per niente approfondito dei protagonisti di 48 ore e Danko – ed è giusto che sia così, in quel tipo di film; così come siamo distanti anni luce dai teppisti di stampo fumettistico e semi-distopico de I guerrieri della notte, e anche dai pistoleri e dai gangster dei suoi film successivi. Driver l’imprendibile è qualcosa di diverso, un unicum, un oggetto per certi versi alieno nella filmografia di Hill, paragonabile soltanto a un altro magnifico noir del Nostro, il drammatico e dolente Johnny il bello (1989) con Mickey Rourke. Nel nostro film siamo al tempo presente, in una città americana non specificata e che potrebbe essere qualunque, e i protagonisti (tre, più gli interessanti comprimari) sono scolpiti nel marmo, plasmati e cesellati con l’abilità di uno scultore.

Driver, il Detective e la Giocatrice sono figure che sembrano uscite da un noir americano o francese dell’epoca classica, ed è proprio ad autori come Jean-Pierre Melville che il regista sembra ispirarsi per dare vita a un brillante esempio di neo-noir che ha fatto scuola per molti registi successivi: primo fra tutti, il contemporaneo Nicolas Winding Refn, il quale si è ispirato parecchio al protagonista del nostro film per il suo Drive del 2011 (a cominciare dal titolo), uno tra i migliori e più importanti noir contemporanei. Certo, i tempi sono cambiati, e la narrazione si arricchisce di un personaggio che nei classici del noir non c’era, oppure era relegato a ruoli marginali: l’autista della malavita, cioè colui che aiuta i rapinatori a fuggire dopo un colpo. Una peculiarità di The Driver è proprio quella di affidare il ruolo da protagonista non ai gangster, che sono relegati in secondo piano, ma al pilota di automobili che sfreccia nelle strade notturne (gli inseguimenti si svolgono sempre di notte) sfuggendo alla polizia, un delinquente sui generis, solitario e indipendente rispetto al milieu della mala.

La figura di Driver – un grande Ryan O’Neal, bello ma sempre scuro in volto – è sicuramente la più interessante e meglio costruita: volendo fare un paragone, il “cowboy” (così lo chiama spesso il Detective) è a suo modo un professionista, un “meccanico”, un “samurai”, uno specialista che ha un proprio codice. Le definizioni di meccanico e samurai, archetipiche in particolare per il neo-noir, fanno riferimento rispettivamente ai film The Mechanic (Professione: assassino) con Charles Bronson e Le samouraï (Frank Costello faccia d’angelo) con Alain Delon, due pietre miliari del genere i cui protagonisti sono assassini a contratto, sicari a pagamento che – per quanto assurdo possa sembrare per la morale comune – sono dotati di una precisa etica, un codice deontologico a cui si attengono scrupolosamente, così come scientificamente eseguono i lavori commissionati.

Ecco, Driver ne è un po’ un corrispettivo traslato nel mestiere di pilota: al contrario dei samurai che abbiamo visto e che abbondano nel panorama noir di ieri e di oggi, lui non vuole sparatorie né spargimenti di sangue (anche se sarà suo malgrado costretto a impugnare la pistola per difendersi), ma ha un preciso codice in base a cui garantisce un servizio perfetto ma vuole essere ricambiato con assoluta serietà. Basti pensare all’inizio, quando – al termine della fuga – liquida i due rapinatori dicendo che non ci sarà una prossima volta, perché sono arrivati in ritardo, dunque “non sono seri”: pensiamo a quanto c’è di Driver nell’omonimo personaggio interpretato da Ryan Gosling nel Drive di Refn.

Così come sono desunti dal noir classico i due co-protagonisti, il Detective e la Giocatrice. Il poliziotto, a cui dà vita un granitico Bruce Dern, torvo e per certi versi simile visivamente al pilota anche nell’abbigliamento elegante, è una sorta di riuscitissimo compromesso fra lo stereotipo del poliziotto americano duro e puro e la figura più malinconica di certi polar francesi – potrebbe essere un Lino Ventura o un Jean Gabin con meno classe, giusto per rendere l’idea. Quella che si instaura fra il pilota e il poliziotto – che si muove nell’anonimato insieme a due colleghi su una specie di furgone – è una vera e propria sfida che va al di là dei rispettivi ruoli, toccando le corde dell’orgoglio personale.

Il “cowboy” è talmente sicuro di farla franca che si diverte persino a disseminare indizi sulla sua presenza – vedasi il grimaldello lasciato appositamente nell’auto in demolizione, o il dialogo con la Adjani dove rivendica l’onore della sfida – mentre il rivale ha fatto di lui una vera e propria ossessione, per la quale sacrifica tutta la carriera e scende addirittura a compromessi con la malavita (la rapina per farlo cadere in trappola). In tanti anni non è mai riuscito a incastrarlo, e quando sembra la volta buona, il destino (un fattore decisivo in ogni noir che si rispetti) si mette in mezzo dimostrandosi una volta tanto benevolo verso il criminale – perché, di fatto, il personaggio di Ryan O’Neal appartiene alla mala, pur essendone indipendente. Proprio quel destino che nella storia del noir si dimostra solitamente avverso ai malviventi e ai “samurai” (pensiamo ad Alain Delon in Tony Arzenta, o a Ryan Gosling nel suddetto Drive), qua gioca invece in favore del protagonista.

Nel cinema noir non può mancare la dark lady, la femme fatale, qua incarnata come meglio non si potrebbe dalla star Isabelle Adjani, una splendida interprete di classe, versatile tanto nel cinema di genere quanto in quello più marcatamente autoriale. Anche qua, i modelli a cui si ispira sono quelli del polar francese, ma soprattutto certi film della Hollywood classica, per cui la Giocatrice non è lontana dalla Barbara Stanwyck de La fiamma del peccato o dalla Rita Hayworth de La signora di Shanghai. Certo, il personaggio della Adjani non è così spietato come le due suddette, ma richiama quell’immaginario nell’iconografia (mora, sempre vestita di nero e dallo sguardo tenebroso) e ricalca il prototipo della donna affascinata dal rischio e dal milieu criminale. Non a caso, è chiamata la “Giocatrice”, ed entra in scena mentre sta giocando al casinò: ma il brivido del gioco non le basta, per cui difende Driver, scagionandolo dalle accuse del poliziotto, e si lega in un certo senso a lui, aiutandolo a fuggire dal doppio nemico (la polizia e la banda di gangster) e a cercare di recuperare il bottino della rapina.

Il loro legame non è destinato, presumibilmente, a sfociare in una storia d’amore, ma come viene detto esplicitamente nei dialoghi i due personaggi sono simili: si assomigliano perché entrambi amano il rischio e le sfide, e perché le loro sono esistenze solitarie, sono vite da perdenti – pensiamo a quanto Walter Hill abbia assorbito in tal senso dal genere noir, per crearne un nuovo modello riformulato ma simile negli archetipi. Allo stesso modo, il regista ne eredita varie situazioni, senza risparmiare in violenza: una violenza vera, realistica, distante da quella coreografata a mo’ di danza di The Warriors e da quella fumettistica dei buddy-movie. Driver non vuole usare armi, ma ovviamente le circostanze gli impongono di cambiare idea: perché, nella mala, quando c’è di mezzo un bottino, ci si ammazza.

Pensiamo al gangster fatto fuori dal compare dopo la rapina, la donna uccisa a sangue freddo, la sparatoria fra Bruce Dern e il corriere sul treno, ma soprattutto alle due scene in cui Ryan O’Neal estrae la pistola, e con lo sguardo glaciale dei migliori samurai (viene in mente, per certi versi, Alain Delon) non ha remore nel fare secchi i due criminali che lo minacciano. Anche in questo caso, come si diceva riguardo gli inseguimenti, le (brevi) sparatorie sono asciutte, lontane da ogni enfasi spettacolare (non c’è neanche un ralenti), e il più vicino possibile alla realtà. La sceneggiatura, ad opera dello stesso Hill, è minuziosa, fatta di trame e personaggi che si intrecciano, e i dialoghi – così come i personaggi – sono scolpiti in modo granitico, fatto di frasi secche alternate a lunghi silenzi.

In precedenza, si parlava di Strade violente (1981) di Michael Mann come di un altro film fondativo del neo-noir contemporaneo, con varie somiglianze col nostro film. E le similitudini non si fermano al protagonista, un gigantesco James Caan nel ruolo di un rapinatore solitario costretto contro la sua volontà a impugnare la pistola, ma si estendono a un certo immaginario visivo per cui Walter Hill si è rivelato ancora una volta avanti coi tempi. Se con I guerrieri della notte anticipa gli anni Ottanta per via di una certa estetica punk e “paninara”, per la quale si rimanda all’articolo precedente, anche con Driver l’imprendibile il Nostro anticipa certi aspetti del decennio successivo.

Certo, non siamo agli estremi di Mann, la cui monumentale opera è pregna di luci al neon (pensiamo al parcheggio di auto), ma l’estetica notturna della città anticipa innegabilmente quel coté visivo. Nelle scene notturne – che in The Driver sono predominanti – vediamo una fotografia ricca e piena di contrasti fra il buio e le luci dei grattacieli e dei palazzi, ma soprattutto delle strade che sfrecciano veloci insieme all’auto del pilota: una notte livida dove fiammeggiano le insegne luminose di vario colore (anche al neon), le luci delle strade, i semafori, i lampeggianti della polizia, ritratti dalla fotografia di Philip H. Lathrop con un gusto acceso e iperrealistico – poiché il cinema non deve riprodurre fedelmente la realtà, ma ricreare mondi e immagini, anche all’interno di una storia realistica come questa – mentre stridono rapsodicamente le musiche di Michael Small.

Un immaginario visivo che sarà ripreso e amplificato da maestri quali Mann e, appunto, Refn, a testimonianza di come l’estetica del neo-noir sia fatta di continui riferimenti e citazioni.