Sarà quasi certamente colpa della nostra pigrizia o degli amori effimeri per autori più alla moda. Oppure, chissà, qualche responsabilità ce l’avrà anche lui stesso, che negli ultimi anni ha scelto un cinema sempre interessante ma un po’ incardinato sulla variazione dello stesso tema. E tuttavia, a riprenderne in mano l’opera, di Pupi Avati non si sottolinea mai abbastanza quanto sia tra gli autori più segreti e imprevedibili del nostro cinema. Perché, al netto di qualche divagazione di troppo nei lidi sicuri della memoria personale e sospetti manierismi forti di un inconfondibile touch, il ricco cinema di Avati (una cinquantina di lavori in mezzo secolo di carriera: fisiologico che certi titoli siano meno risolti di altri) merita una ricognizione più approfondita e generosa delle letture che lo vogliono anzitutto narratore intimista di storie familiari e piccoli drammi umani oppure cantore supremo del gotico padano.

Nella prima veste piace al pubblico generalista, pronto a emozionarsi sulla superficie delle in realtà tutt’altro che rassicuranti storie di ragazzi e ragazze, gite scolastiche, cuori altrove, dichiarazioni d’amore; nella seconda, a molta cinefilia che quasi dimentica di considerare che il regista di Zeder sia lo stesso di Noi tre. In realtà, una lettura più attenta svela che le due dimensioni sono complementari e definiscono il complesso profilo dell’autore. Per superare l’errore di ragionare rigidamente basterebbe, tra l’altro, rivedere anche soltanto i suoi film degli anni Ottanta: Impiegati, Regalo di Natale, Festa di laurea, Ultimo minuto sono nerissimi, in certi aspetti addirittura funebri, parafrasi spietate del decennio che sentenziano la fine dell’amicizia, della purezza, dell’integrità morale. Oppure recuperare uno dei più recenti, Il papà di Giovanna, dove la suggestione gotica affiora nei corpi, nei colori, negli umori mentre deflagra la tragedia dei mediocri.

Nelle sue tante diramazioni, Avati ha realizzato un cinema che non somiglia a niente, dimostrando la propria intelligenza d’autore anche quando, prima di altri, ha visto nella televisione una nuova possibilità per raccontare una storia. Pensiamo alle miniserie semi-autobiografiche Jazz Band, Cinema!!! e Dancing Paradise, che realizza tra il 1978 e il 1982 mentre la sua attività cinematografica è ancora felicemente schizoide. L’Avati degli anni Settanta, infatti, è una scheggia impazzita, un talento forse sì alla ricerca di un’identità precisa ma soprattutto svincolato, esaltante, scatenato. Esplora le derive più impreviste del fantastico dentro generi sempre rinnovati, privilegiando il sovrannaturale nello scandagliare un orizzonte di perdenti. La tendenza eccentrica la recupera un po’ negli anni Novanta, quando alterna passato e presente, arcani incantatori e amici d’infanzia, il biopic leggendario di Bix e quello ipotetico di Festival.

Tornando agli esplosivi e ribelli Settanta, tra il grottesco spiritico di Thomas… gli indemoniati e quello goliardico di La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, la satira politica di Bordella e l’ironia macabra di Tutti defunti… tranne i morti, le sceneggiature di Salò e Dracula in Brianza, si stagliano due film destinati a diventare pietre miliari nel suo percorso. Una è La casa dalle finestre che ridono, horror assurto al culto per un repertorio di sorprendenti intuizioni e il contesto inedito in cui si sviluppa la vicenda, capostipite di un filone che ritorna nell’imminente Il signor Diavolo. L’altra è Le strelle nel fosso, favola arcadica in cui c’è un passaggio che tiene e spiega tutto il cinema di Avati: «ogni sera, il vecchio, prima di mandarli a letto, aveva una storia da raccontare, che era poi sempre la stessa, ma serviva a spaventarli: e avere paura del buio, della notte, di qualcuno che poteva venire, voleva dire non sentirsi soli».

Tracce di questo film-palinsesto si scoprono nell’humus di tutte le sue storie emiliane, tra le vie degli angeli e il bar Margherita, nonché nella modulazione musicale dei dialoghi, nell’idea del narratore-complice, nel catalogo dei feticci (il sodale Gianni Cavina, le valorizzazioni di Carlo Delle Piane e Lino Capolicchio: giusto i primi di una galleria affollatissima, dal rigenerato Diego Abatantuono allo stralunato Nik Novecento), nella moralità di uno sguardo affettuoso ma non per questo compiaciuto. Da questo universo deriva Magnificat, che conferma quanto le fughe nel passato remoto gli servano sia per sparigliare le carte di chi ne rimarca la presunta autoreferenzialità sia per rievocare il sacro perduto e interpretare la contemporaneità. Ad Avati quest’ultima fa orrore, tant’è che i film del terzo millennio, da La rivincita di Natale a Il figlio più piccolo, sono ancora una volta apologhi cupi e avvilenti, con la precoce perdita della memoria del cruciale Una sconfinata giovinezza a testimoniare la fiducia solo nei ricordi più ancestrali.