Il fascino esercitato da Christopher Nolan sta in gran parte nell'equilibrio fra innovazione e conservazione. Fra il ricognitore che incanta e detta legge - per ritmi, temi, intenzioni - e il soldato di retroguardia che si mette con orgoglio nel solco dei grandi narratori del passato, non limitandosi a rimpiangere un cinema scomparso ma accettando davanti al mondo la sfida di vederlo tornare a vivere. Dunkirk arriva nelle sale italiane a pochi mesi dalle polemiche di Almodòvar e dello stesso Nolan sulle politiche distributive del colosso Netflix, ritenute da entrambi un pericolo per il futuro dell'esperienza cinema. Arriva in pellicola 70 mm, a un anno da The Hateful Eight. Ma soprattutto arriva dopo Interstellar, il film in cui i padri si incontrano nel futuro, quello in cui al grido di "Eureka, è un classico!" Nolan è uscito allo scoperto: lo Spazio come gli oceani di Melville e Conrad, la cattura di un drone come scena di pesca alla Hemingway; fedele allo spirito di quella dichiarazione sincera ma forse un po' troppo esibita, Dunkirk ne è la prosecuzione a livello tematico e contemporaneamente sa liberarsi di ogni zavorra, del lavorio di meningi, della verbosità. Non si era più visto dai tempi di Following (1998) un film di Nolan sotto l'ora e cinquanta di durata; non si è praticamente mai visto tradurre un budget di 100 milioni in un'essenzialità simile. Per quanto sia anche - come il suo predecessore - un manifesto, Dunkirk lo supera nel senso di riuscire molto meglio a mettere in pratica ciò che prescrive, di spiegare cinema col puro e semplice essere cinema.

Nolan ha modulato ogni sua opera sull'idea di trauma da superare, scampato pericolo, ritorno dal passato o dall'aldilà; naturale che al momento di affrontare per la prima volta la Storia la sua scelta cada su un grande salvataggio. Alla fine del 1941 gli sforzi congiunti di esercito, marina militare britannica e imbarcazioni civili permisero a quasi 400 000 soldati inglesi di lasciare sulle proprie gambe la città portuale francese di Dunkerque (Dunkirk per gli anglofoni) assediata dal nemico e trasformatasi in una trappola mortale; il successo dell'operazione determinò un rilancio della fiducia inglese nella vittoria proprio alla vigilia di Leone Marino, suggellata dal leggendario discorso di Churchill alle Camere. Dunkirk è un film patriottico? Certamente sì, ma non nel senso tradizionale. Non ci sono disvalori etici o politici a cui contrapporre le proprie virtù: il nemico non è l'esercito tedesco, che non si vede mai e non si sente mai parlare, ma un marasma di raffiche di mitra, bombardamenti aerei, colpi singoli di Mauser; nè gli Inglesi sono eroi, non ne hanno modo perchè nessuno di loro pronuncia più di dieci battute e quasi nessuno ha un nome. Questa è la storia di una ritirata.

Il valore è nell'idea del salvataggio, quintessenza del cinema nolaniano; ciò che qui va inteso per "patria" è ancora una volta cinema. E il motivo per cui Dunkirk funziona così bene è quello che dicevamo prima: anzichè spiegare a parole che c'è un modo di intendere e fare cinema a rischio d'estinzione, racconta la fuga da un'èmpasse con mezzi così esclusivamente cinematografici da costituire di per sè un'iniezione di fiducia. La Dunkerque del film è un oltremondo (come in precedenza il pozzo, il buco nero, i recessi della memoria), "stazione di sosta" che fagocita i suoi prigionieri in attesa di una risoluzione. Le esplosioni fanno il vuoto fra i soldati e questi si rimettono in riga con la compostezza di automi; la corrente riporta i corpi a riva mentre decine di barche prendono il mare per raggiungere i superstiti. Nolan gioca con le risorse spettacolari del cinema classico per trasmettere un senso di sospensione quasi purgatoriale. "Se sai dove e perchè collocare la linea d'orizzonte, allora potresti essere un buon regista"; parola di John Ford. Linea alta uguale sicurezza, linea bassa uguale inquietudine, il cielo schiaccia i personaggi. In Dunkirk quando la linea è orizzontale si trova sempre monotonamente al centro e alimenta la sensazione di immobilità; più spesso è obliqua, espediente da cardiopalma risalente almeno al finale di Breve incontro di David Lean, che coi suoi ambigui kolossal bellici è chiaramente d'ispirazione al suo connazionale.

Non bisogna però credere che Nolan lasci da parte il suo stile per scimmiottare i classici; dicendo che abbandona i canoni del film patriottico si dice poco, elude regole basilari del war movie e della narrazione tradizionale in genere: oltre a ignorare l'etica (consueta) e i personaggi, altera la consequenzialità temporale e perfino spaziale della vicenda, rendendo necessarie più visioni per chiarirne i dettagli. Ma il coraggio del ricognitore che accetta il rischio di confondere il pubblico si accompagna di nuovo al discorso della retroguardia. Vero, è l'ennesima trottola impazzita alla Nolan (costruzione "a scomparti", ordine discretamente arbitrario, furiosi scarti in avanti e all'indietro) ma la tenuta narrativa ne esce illesa come da una situazione di perfetta linearità; vero, c'è una sequenza nell'ultima mezz'ora che può di primo acchito lasciare perplessi (dove siamo? Quali e quanti sono gli aerei?) ma una volta fatti quadrare i conti si applaude la bravura del regista nel trarre da due situazioni, due luoghi e tre cacciabombardieri una tensione sola.

L'esperienza insomma deve sopravvivere; il momento più alto di Dunkirk è quello in cui, al rombo minaccioso degli aerei nemici in avvicinamento, dal mare opaco e impersonale delle cime degli elmetti inglesi si solleva un viso spaventato, poi un altro e un altro ancora, fino a riempire tutto lo schermo. Nolan cerca le persone in un mondo freddo come certi monumenti, bisognoso come sempre di riportare tutto a noi - umanismo avvicinabile a quello del dittico di Iwo-Jima di Eastwood, di cui l'episodio giapponese rappresenta un precedente per Dunkirk con la sua mistura di gelo e sentimentalismo; ma anche appello a un modo il più possibile umano di essere spettatori di cinema. Ancora usando i volti Nolan si include fra i salvatori: c'è il suo attore-feticcio Cillian Murphy, c'è Tom Hardy con l'ennesima maschera dopo quelle di Bane e di Mad Max: Fury Road, altra epocale corsa contro il tempo e per la salvezza; c'è la new entry Mark Rylance che richiama immediatamente la old school di Il ponte delle spie. E la missione riesce, lo insegna la storia: le mitragliatrici mancano il bersaglio di un soffio, portelli di nave e abitacoli di aereo si spalancano appena in tempo; l'aereo - simbolo di sospensione per eccellenza - alla fine tocca terra.       

"..Sicchè quando Dio voglia il Nuovo Mondo, con tutte le sue risorse e la sua potenza, non venga avanti alla risoluzione e al salvataggio del Vecchio Mondo."