L’ultimo film di Paolo Sorrentino ha inizio di notte, con una donna alla fermata del tram che viene sorpresa dal passaggio di un uomo distinto che conosce il suo nome, quello del marito e che millanta di poter alleviare il grande dolore che la affligge. Ha inizio così, come una fiaba che immediatamente viene travolta dalla vita reale, uno dei più sinceri e potenti autoritratti cinematografici mai visti su schermo. Da tempo ormai la vocazione artistica di Paolo Sorrentino viene associata a quella di Federico Fellini. Un accostamento frutto più di un approssimativo e pragmatico desiderio di delineare una continuità tra presente e passato, che di un'attenta analisi stilistica della filmografia dei due autori. Eppure, nel suo ultimo ed acclamato lavoro, il regista napoletano si protende verso l'opera del Maestro riminese per attingervi a piene mani.
Impossibile assistere al primo atto di È stata la mano di Dio senza scorgere un richiamo alla profonda e nostalgica nota autobiografica che ha reso Amarcord uno dei film più amati nella storia del cinema italiano. E non è dunque un caso che Fellini sia presente in un delle scene cruciali di questo meraviglioso film. La scelta di relegare al fuoricampo la presenza del sommo autore è un indice del senso di discrezione con cui Sorrentino si è approcciato alla sua opera più intima ed emotivamente partecipata. È il volto sognante del giovane protagonista Fabietto (un eccezionale Filippo Scotti al suo esordio attoriale) a restituire lo stupore di trovarsi di fronte ad una leggenda vivente. In quello sguardo si annida il timido seme da cui potranno poi germogliare le future aspirazioni di questo goffo ed introverso adolescente. La via verso la maturità, però, si rivela ben presto più tortuosa del previsto. La vita, che per lungo tempo era trascorsa come in una goliardica ed esilarante commedia, deve inabissarsi nel baratro di una tragedia familiare prima di risorgere sotto forma di nuova consapevolezza.
Proprio in virtù dell'ampiezza del suo arco narrativo È stata la mano di Dio risulta un racconto di formazione completo, ricco di sfumature che virano dalle piccole gioie di un contesto familiare imperfetto ma amorevole allo strazio dell’abbandono, dall'attrazione erotica verso la sorella della madre alla gelida apatia che aleggia sulle macerie di una vita distrutta improvvisamente. Non solo una coerente ricostruzione di accadimenti personali, ma specialmente la loro sublimazione in linguaggio filmico denso e stratificato. Ecco dunque il richiamo a Fellini, autore che come pochi altri ha osato denudarsi attraverso il suo cinema. Un atteggiamento che Sorrentino ha talvolta lasciato intravedere, senza però trovare mai il coraggio di mostrarsi fino in fondo e celando troppo spesso la sua anima dietro l'orpello del virtuosismo tecnico.
Ciò che il regista premio Oscar compie con il suo ultimo film è dunque un radicale quanto spontaneo adeguamento del proprio sguardo artistico alla natura dei sentimenti più viscerali dell'essere umano. Questo comunque non fa di È stata la mano di Dio un film dallo smaccato piglio realista. In un'opera che parla della propria vita, Sorrentino non rinuncia all'onirismo che ha segnato alcuni tra suoi lavori più celebri, ma trova qui il modo di dosare tale espediente, fuggendo il rischio di incappare di nuovo in un pretenzioso eccesso formale. Lontani dalla fredda magniloquenza estetica del recente passato, ci si muove qui in un mondo in cui la ricerca della (grande) bellezza si accompagna ad una sincera necessità di raccontare e raccontarsi, rimanendo comunque coerente alla propria personalità registica.
Ecco dunque la presenza di personaggi caricaturali, la cui caratterizzazione basata sulla marcatura di pochi tratti distintivi viene percepita non come un vezzo superfluo, ma altresì come elemento fondamentale per la costruzione di un’ironia amara che strizza l’occhio al miglior cinema di Ettore Scola. Un territorio non del tutto sconosciuto per la filmografia sorrentiniana, ma connotato in questo caso da una genuinità inedita. Il miracolo compiuto dall’autore è dunque quello di essere riuscito a rinnovarsi pur rimanendo fedele a sé stesso, elaborando un coming of age totale, in grado di spaziare con delicatezza e disinvoltura dall’ilarità sfrenata alla sofferenza lacerante.
Un film sulla crescita e sulla perdita, sulla solitudine e sulle infinite declinazioni dell’amore e nondimeno, in contraddizione alle parole del mentore Antonio Capuano nella scena madre conclusiva, una spassionata ode alla speranza. Tutto ciò adagiato sullo sfondo di uno dei più amorevoli omaggi alla città di Napoli, presente non solo attraverso i paesaggi alle pendici del Vesuvio, ma anche tramite le gesta del suo re, Diego Armando Maradona. Ben lungi dall’essere una figura contestuale, le vicende del fenomeno argentino producono effetti e mutamenti nelle vite dei personaggi che in lui individuano una figura mitologica.
Un culto laico che si insinua nel racconto scandendone le varie fasi e precisando la collocazione temporale degli eventi, ma che infine si rivela il fattore preponderante per la riproduzione dell’ambiente partenopeo. Napoli come imprescindibile luogo in cui accumulare esperienze di vita, ma anche come fulcro di un dolore da cui fuggire nel tentativo di guardare avanti e trovare nel futuro una nuova linfa vitale. Impossibile non commuoversi di fronte ad uno scorcio di vissuto così intenso e sincero. Di fronte ad un tale fervore emotivo certi termini vanno scomodati: È stata la mano di Dio è il capolavoro di Paolo Sorrentino. Un film dopo il quale ci approcceremo al suo cinema con un sentimento diverso, di intimo affetto e dolce malinconia.