Comincia su un set cinematografico, quello dell’immaginario I metalmeccanici hanno pochi fucili (o forse era Il capezzolo d’oriente?), Ecce bombo di Nanni Moretti, il primo film professionale del leone di Monteverde dopo il successo inaspettato dell’8mm (poi gonfiato a 16mm e distribuito in sala) Io sono un autarchico.

È la parodia di un cinema italiano che Moretti, fin dal suo arrivo sulla scena, rifiuta con disgusto e con rabbia: quello “razzista perché se la prende con i vecchi, gli omossessuali, le donne brutte, gli strabici, gli storpi”; un cinema superficiale e qualunquista come le chiacchiere da bar, in cui “rossi e neri sono tutti uguali”.

Per combatterlo Moretti mette da subito in campo un linguaggio cinematografico personale e innovativo, fatto di una frammentazione costruitissima e perfezionista (è già il regista dei cinquanta ciak a scena), di una recitazione straniata e straniante, di un’analisi profonda della realtà che però esula dalla realtà, che rifiuta semplificazioni e finzioni (Ecce bombo è anche il primo film, con Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci, a rivendicare in quegli anni l’uso del suono in presa diretta) ma accetta e vive del surreale.

E se Michele Apicella al cinema non ci vuole mai andare, al contrario vorrebbe rifare la vita come le scene sul set di un film: dai litigi con la fidanzata (“rifacciamola perché è venuta bene”, “era migliore la prima”), fino al rumore della sedia di sua sorella che si alza dal tavolo, che si può ripetere meno stridente, più silenzioso. Perché il cinema di Nanni/Michele è un mondo ideale, dove raccontare e combattere le proprie idiosincrasie, cancellare e denunciare tutte le cose che lo fanno arrabbiare, creare una nuova morale. Sì, ma quale?

Michele guarda con sospetto la sorella e suoi compagni di scuola che preparano un’occupazione (tra di loro c’è Augusto Minzolini, purtroppo destinato ad altre orribili carriere giornalistiche), mentre il padre guarda con sospetto lui. Non gli piacciono i giovani e non gli piacciono i suoi genitori. È un ragazzo imbrigliato tra due visoni del mondo, che sente entrambe estranee: orripilato dal padre che gli chiede quale ballerina preferisce in tv da una parte, e alle prese con una libertà, soprattutto delle donne, che non sa come gestire, dall’altra.

E allora dice lui alla madre quello che lei dovrebbe pensare, si preoccupa per l’illibatezza della sorella, suggerisce alla ragazza con cui esce come si dovrebbe sentire dopo una scappatella con un uomo sposato. Rimprovera aspramente i genitori, e poi fa esattamente le stesse cose che fanno loro.

Eroe dalle convinzioni granitiche, ma confuso e senza una meta, Michele non sa mai “se lo si nota di più se viene e se ne sta in disparte o se non viene per niente”; cerca nel gruppo di autocoscienza maschile che decide di mettere in piedi con i suoi amici un mezzo per analizzare, e magari capire, i rapporti con le donne, per trovare una strada politica da seguire, una direzione di vita che tenga insieme pressioni borghesi e nuove istanze.

Lui e i suoi amici sono ragazzi che hanno smesso di fare politica attiva, pur essendo di estrema sinistra, e “sbagliano quasi tutto: nei rapporti con le donne, tra loro, nello studio, in famiglia, sul lavoro. Che cercano di esser diversi dai nonni, rivoluzionari nelle cose di tuti i giorni”. Ci provano, certo, ma ne usciranno sconfitti. Aspettano l’alba, ma guardano dalla parte sbagliata, e quando il robivecchi passa gridando “ecce bombo”, il sole (dell’avvenire?) è già sorto alle loro spalle.

In fondo Michele non capisce e non si sforza di capire, così le critiche agli altri, al nulla di certe persone e situazioni diventate proverbiali (“faccio cose vedo gente”), sono sempre più forti e sincere delle critiche verso se stesso: “come sono fatto male” dice, ma non ci crede nemmeno lui. L’ossessione più stringente di Moretti è, fin da qui, quella per il linguaggio: ci sono già le parole inaccettabili, parlate (i nomignoli, i milanesismi, le locuzioni orribili e false con cui il telecronista racconta i “giovani”) e scritte.

Sono i giornali accumulati “solo perché mi fanno arrabbiare”, le lettere non spedite di cui si libererà solo in Aprile. E sono piene di critiche che Michele non accetta, anche quando sono giuste. Perché in fondo il personaggio di Moretti vive fin dall’inizio di questa strana dicotomia: la sua denunciata infallibilità e la sua palese fragilità.

Più volte Moretti ha detto che era convinto di aver fatto un film drammatico per pochi, per poi accorgersi dopo l’uscita del film di aver fatto un film comico per tutti. E se Ecce bombo fosse entrambi? Il film comico su un gruppo di uomini che fanno autocoscienza come le femministe (e non capiscono e non si capiscono, all’inizio come alla fine del percorso), e un film drammatico sulla realtà di quegli anni, sui rapporti deteriorati con famiglia, lavoro, società quando, dopo il Sessantotto, si era scardinato (giustamente) un sistema di valori e si cercava faticosamente di trovarne un altro?

Se così fosse, sono entrambi due film epocali, che se non hanno cambiato il cinema italiano (ahimè), sicuramente hanno modificato e interrogato noi spettatori, e continuano a farlo. Ma forse è meglio fermarsi qui con i complimenti, non vorrei ritrovarmi Nanni accanto al letto che mi rilegge qualche frase di questa recensione, facendomi piangere di vergogna.