Nell’itinerario cinematografico di Pasolini Edipo re si pone come un crocevia irripetibile. Della filmografia dell’autore si parla spesso e volentieri in blocchi, come a sottolineare una innegabile struttura nella sua evoluzione di regista-intellettuale. L’accostamento spontaneo in questo caso è a Medea, con cui due anni dopo Pasolini avrebbe completato un proprio dittico sulla tragedia greca. Ma Edipo re, a dispetto degli schematismi storiografici, sfugge in qualche modo a una catalogazione precisa: quella che appare una semplice parentesi letteraria è in realtà sintesi e predizione della poetica registica di Pasolini, una visione che intreccia con la sua filmografia un discorso multiforme di assonanze ed emancipa il film da una semplicistica classificazione.
L’intento specifico di Pasolini è di fare dell’Edipo re un racconto di sé e della sua esperienza personale. L’anno è il 1967, l’alba dei moti studenteschi: Pasolini sta già scrivendo le prime bozze di quelle che saranno Teorema e Porcile, opere sorelle con cui l’autore porterà all’estremo il proprio discorso anticapitalista. Nel frattempo, il seme della tensione individuale sboccia dalle riletture di Platone e del dramma di Sofocle, che il regista decide di rivedere attraverso il prisma del proprio vissuto.
Quando Edipo re viene presentato alla Mostra del Cinema di quell’anno, Pasolini ne parla come del suo primo film autobiografico. La prospettiva narrativa di Edipo è però simile a quella con cui qualche anno prima, in maniera celata, il regista racconta di sé nel Vangelo secondo Matteo. Pasolini dichiarerà sui Cahiers che "la differenza profonda fra Edipo e gli altri miei film è che è autobiografico, mentre gli altri non lo erano, o lo erano inconsciamente, indirettamente".
Col senno di poi, è difficile pensare che l’autore non si rispecchi in quel personaggio tragico che era il suo Cristo, poeta e intellettuale a tutti gli effetti. Edipo re rappresenta, in questo senso, l’espansione di un moto preesistente e auto-riferito, un’opera nata da una costola di quel Vangelo in cui Pasolini fa interpretare la Vergine Maria a sua madre Susanna, in lacrime sotto il figlio crocifisso.
Proprio dall’immagine della madre scaturisce Edipo, che con il suo prologo negli anni Venti dichiara sin da subito gli intenti autobiografici dell’autore. Nel verde della campagna emiliana, che accoglie il protagonista come in un ventre materno, Pasolini codifica la propria mitizzazione, in una visione esplicitamente freudiana che rappresenta la chiave di lettura immediata del film: un racconto mitopoietico della favola pasoliniana, nata sotto il segno dell’iniquità paterna e di una femminilità che è stata corrotta dalla gelosia maschile.
Ad accogliere l’ambiguità delle pulsioni di Edipo-Pasolini c’è Silvana Mangano, una presenza materna ancora più statuaria di quella a cui darà vita in Teorema. La sua Giocasta è una figura storica e insieme letteraria, come la Madonna del Vangelo, ma anche più cupa e inquieta, tragica come Mamma Roma, vittima dell’uomo come Medea. Dietro il viso algido e la "bellezza amara" (così scrive Pasolini in una lettera a Mangano) di questa madre ghiacciata si riflette l’ambiguità dell’autore, la sua vena narcisista e auto-lacerante: in lei Pasolini disegna l’immagine di una spaventosa confusione affettiva, configurando la propria autobiografia nel segno di un mal di vivere che ha nello strappo dell’amore materno la propria origine.
Questo scarto violento si manifesta nel racconto con un improvviso movimento dall’Italia alla Grecia antica, che nell’ecosistema immaginifico di Pasolini si concretizza in Marocco – anticipazione dell’immaginario esotico delle opere future, dall’animismo della Cappadocia di Medea all’araba giovialità del Fiore delle mille e una notte. Con questo brusco passaggio da storia a mitologia, Pasolini mette in scena, nel suo primo lungometraggio a colori, un viaggio a ritroso dal paese consumistico a quello umanistico, dove il dramma sofocleo si concretizza in forma arcaica e pre-civilizzata.
In questo spazio mitologico l’autobiografismo dell’autore trova la propria espressione più aspra e tangibile. La Grecia di Edipo re, lontana anni luce dall’immaginario classicista, è un luogo puramente pasoliniano, di una materialità preistorica e straniante, all’insegna di uno spiazzante sincretismo culturale – tra costumi africaneggianti e musiche giapponesi. Una dimensione che riscrive il senso storico del racconto sofocleo, facendone in qualche modo un racconto delle origini, e che nella propria materialità riflette costantemente l’enigma psicanalitico del suo protagonista: Franco Citti, modello per eccellenza dell’umanità pasoliniana, è un Edipo vagabondo, forse consapevole della propria natura scellerata, perso in una terra dove la sacralità è uno specchio dell’uomo prima che del divino. Così enuncia la Sfinge, che da creatura mitologica si trasforma in un carnevalesco araldo: il vero nemico di Edipo non è il Fato, ma Edipo stesso.
Infine, rimbalzando dalla Tebe antica agli anni Sessanta, uno scarto finale verso l’ideologismo ostentato, che entra in scena nell’epilogo del film. Edipo acciecato è il Tiresia della società consumistica, un cantore dell’empietà dell’uomo al quale nessuno sa dare ascolto. Il suo unico amico è il sottoproletario Ninetto Davoli, compagno ingenuo da cui l’eroe si fa guidare nel mondo – una coppia dispersa come quella di Uccellacci e uccellini – per raggiungere il prato materno dove Edipo è stato concepito e dove, abbandonato da tutti, sta andando a morire. Con questa parentesi finale Pasolini chiude il cerchio aperto all’inizio, “storificando” nuovamente il mito su di sé e allargando il film verso il proprio ultimo orizzonte interpretativo, quello più attuale e marxista.
Nella chiusa di questo Edipo labirintico, che porta il segno dell’intera produzione filmica di Pasolini, il regista compie un disperato tentativo di aprire se stesso al mondo, di fare del mito sofocleo una riflessione modernizzata in cui la borghesia si rispecchi colpevolmente. Una sferzata sconcertante, meccanica forse, ma anche drammaticamente personale. Edipo-Pasolini, condannato a un impossibile amore materno, non vede riconciliazione sociale per la propria irrisolutezza: nel suo austero e spaventoso film mitologico, Pasolini ha messo per immagini il dramma della sua solitudine.
Per i critici di allora rappresentava forse un’opera troppo chiusa nella propria letterarietà, un tassello di un quadro ancora incompleto. Per lo spettatore onnisciente di oggi, che ha impressa negli occhi la foto della madre Susanna vicino alla bara di Pier Paolo, è forse il suo film più tragicamente illuminante.