Il concerto finale di The Band avviene in un momento storico cruciale, quando la sbornia della controcultura stava ormai esaurendosi. Il senso del loro Last Waltz non era solo quello di rispolverare il vecchio repertorio, ma di celebrare un certo tipo di creatività, un’idea di musica estrema e rivoluzionaria, che alla fine degli anni Settanta sarebbe andata perduta. “This lifestyle will kill you” dice al riguardo il frontman Robbie Robertson, testimoniando la propria resa nei confronti del tempo che avanza.
Martin Scorsese, che questa transizione l’aveva vissuta sulla propria pelle, colse pienamente non solo l’intento di Robertson e The Band, ma il valore che un evento di quella portata aveva sul piano artistico e culturale. Quando venne contattato dal tour manager Jonathan Taplin per filmare lo spettacolo, Scorsese scelse dunque di usare un approccio consono a questo sentimento di scanzonata, riottosa malinconia.
C’è però uno scarto evidente rispetto ai film-concerto degli anni precedenti (Gimme Shelter sui Rolling Stones, per dirne uno), che riproducevano la realtà in maniera immediata e spontanea, in linea con lo stile osservativo del cinema diretto. Scorsese, infatti, sfrutta i mezzi filmici al massimo della loro potenzialità, per dare all’addio di The Band uno senso filmico adeguatamente spettacolare.
Sette telecamere a 35 mm, scenografia della Traviata, innumerevoli microfonisti e fotografi (tra cui anche Vilmos Zsigmond e Lázslo Kovács): The Last Waltz non è un semplice film-concerto, ma una mega-produzione musicale – e un’interessante controparte al ben più classico New York, New York, che Scorsese stava girando nello stesso periodo.
Le performance di The Band sono curate al dettaglio, inquadratura per inquadratura, come se fossero i numeri di un musical – lo si vede soprattutto con la splendida The Weight, registrata dopo il concerto dentro uno studio cinematografico, in una dimensione sospesa e a sé stante. La musica, intanto, si incrocia con le interviste, durante le quali i membri del gruppo raccontano della sua fondazione, dei tour, dei sedici anni in cui hanno suonato insieme. Un approccio studiatissimo, quello di Scorsese, che non rompe la magia dell’evento ma vi aggiunge spessore, sfruttando i movimenti di camera per sottolineare la statura dei protagonisti, per renderli in tutto e per tutto personaggi, non solo musicisti.
Poi ovviamente ci sono i tantissimi ospiti, uno più fenomenale dell’altro: la comparsata di Neil Young e della sua armonica nella bellissima Helpless; Joni Mitchell che canta Coyote col suo piglio serio; la voce potente di Van Morrison in Caravan; la straordinaria sequenza in cui Muddy Waters si cimenta nel blues di Mannish Boy (registrata per puro caso da Kovács mentre tutte le altre telecamere erano spente). E alla fine i mitici interventi di Bob Dylan, che aveva deciso di non partecipare al concerto, salvo ripensarci all’ultimo grazie all’intervento del produttore Bill Graham.
Tra problemi tecnici, discussioni e uso di stupefacenti, il dietro le quinte dello show è ormai leggendario. Ma sono aneddoti che arricchiscono la mitologia del film, perché riverberano anch’essi la storicità e la sensibilità artistica dei suoi molti protagonisti. In una delle interviste, il batterista Levon Helm fa notare come il rock‘n’roll sia un melting pot di influenze, dal blues, al country, fino alla musica gospel. È questo senso comunitario a dare forza a The Last Waltz: il numero finale I Shall Be Released, durante il quale tutti i musicisti si riuniscono per cantare un iconico pezzo di The Band, costituisce a suo modo un punto di non ritorno nella storia del rock.
Quello diretto da Scorsese doveva rappresentare una sorta di funerale artistico, e per certi versi lo è. Ma la passione e l’energia che trasudano dallo schermo sono troppo forti perché il film si lasci andare alla tristezza. The Last Waltz è dunque una festa musicale sulla fine di un’epoca. O sull’inizio di una nuova: per citare Robertson, “the beginning of the beginning of the end of the beginning”.