“Prima di Elvis il mondo era in bianco e nero. Poi è arrivato... ed ecco un grandioso Technicolor”. Efficacissime e d’effetto, queste parole di Keith Richards svelano in effetti lo spartiacque operato da Elvis Presley, quella rivoluzione che dalla superficie ha scavato invero nella profondità dei costumi dell’America travolta dal Maccartismo e dalla Guerra Fredda che solamente Baz Luhrmann con il suo Elvis (2022) poteva rappresentare ancora.

La formula del biopic non è certo nuova, anzi è un genere che ha contribuito al processo di mitizzazione di alcune figure con interesse tanto da parte del circuito produttivo quanto da parte degli spettatori, basti pensare ai casi recenti come Judy(2019), Respect (2021) o The United States vs. Billie Holiday (2021), non dimenticando Rami Malek nei panni di Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody(2018) e un altrettanto mostro sacro come l’Elton John di Taron Egerton in Rocketman (2019).

Senza rinnegare i propri modelli, Luhrmann dopo nove anni ritorna rinsaldando il suo universo creativo in cui l’ibridazione detta le regole del gioco e decide di contaminare il biopic con l’estetica scintillante del musical e con gli inserti tradizionali del dramma sentimentale, attingendo a quelle formule che lungo la sua ristretta filmografia hanno fondato una peculiarissima koinè linguistica.   

Luhrmann fa proprio il genere biografico intrecciando la storia di Elvis Presley (Austin Butler) con quella di un personaggio chiave nella vita del Re, il colonnello Tom Parker (Tom Hanks): il percorso esistenziale di Elvis si snoda secondo l’archetipico percorso di crescita, ascesa e declino grazie alla voce fuori campo dello spietato manager, in una rivendicazione patetica che da un lato umanizza il personaggio di Hanks, rendendolo più sfaccettato, dall’altro contribuisce alla santificazione della vittima dello star system. Se è vero poi che “un imbonitore vale solo quanto la sua attrazione”, ecco l’impresario quale deus ex machina capace di trasformare un ribelle di Tupelo nel sovrano di Graceland, sfruttandone il talento da perverso demiurgo.

L’agiografia concepita da Luhrmann mostra un eroe smarrito, sofferente, erede dei tormenti generazionali tipici dei primi anni Cinquanta già esibiti sullo schermo da Dean, Brando, Clift: l’Elvis incarnato da Butler, con lo sguardo penetrante, gli zigomi pronunciati e la cadenza strascicata del Sud è un vagabondo aitante, esplosivo, alla ricerca della propria identità, in un doppio binario tra de-virilizzazione e acquisizione consapevole del potere del proprio corpo. L’Elvis che si scatena davanti ai riflettori è sì il genio che ha saputo coniugare il country bianco con il R&B afroamericano attraverso una performatività inedita, ma è anche e soprattutto un individuo fragile che ha perseguito un’auto-idealizzazione.

In questa unione tra ribellione e sogno di diventare Capitan Marvel jr. si cela la potenza del protagonista, il cui stile viene letto come un’infrazione alle regole vigenti in tema di segregazione razziale. Luhrmann si sofferma infatti sulle sue vicissitudini personali – l’affetto morboso per la figura materna, il rapporto di dipendenza con il colonnello Parker, il naufragio matrimoniale – sullo sfondo della storia americana, inserendo alcuni fatti di cronaca che hanno sconvolto l’identità nazionale come gli assassinii di Martin Luther King Jr. e di Robert Kennedy (1968) insieme all’eccidio di Cielo Drive (1969), marchi indelebili nella coscienza collettiva che ripropongono il tema del “personaggio pubblico” consumato, distorto e tritato dai mass media moderni.

Pur premendo l’acceleratore su alcuni tòpoi come il ricorso alla voce narrante, l’uso di vibranti cromatismi e la predilezione per il côté melodrammatico a discapito dello scavo psicologico dei personaggi, rispetto alle stravaganze kitsch cui aveva abituato il pubblico con Moulin Rouge! (2001) e con Il grande Gatsby (2013) questo lavoro appare più addomesticato, forse per timore reverenziale, sicuramente più vicino alle atmosfere da kolossal di Australia (2008). Seppur levigato, Elvis straborda comunque dai confini, sfreccia colorato come un trottola su un rettilineo prevedibile, focalizzandosi sul volto, sugli outfit e sulle pose di questa divinità dello showbiz, facendone del sudore e degli spasmi i segni dell’evoluzione da ragazzo del Mississippi a supereroe della musica ucciso dall’amore fatale per e da parte del pubblico.

Il limite e, paradossalmente, la potenza della sesta opera di Luhrmann sembra dunque risiedere nell’interstizio tra la glorificazione hollywoodiana di un’icona come Elvis Presley e l’esaurimento dei connotati e delle motivazioni di un certo cinema postmoderno, un modo di “fare cinema” nostalgico, vivo e sognante, di cui il regista australiano rimane a distanza di decenni una delle firme più interessanti.