Nel 2022 ci sarebbero stati tutti gli elementi per aspettarsi il peggio da un film come Elvis. Di recente i successi di Bohemian Rhapsody (2018) e Rocketman (2019) hanno consacrato il biopic musicale come simbolo di un’industria dedita al fan service più vuoto e corrivo. Personaggi dalla popolarità trasversale come Freddie Mercury o Elton John assicurano un pubblico “pre-fidelizzato”, risparmiando ai realizzatori la fatica di conquistarselo con l’inventiva. E la via percorsa per arrivare al bacino più ampio possibile di spettatori è quella di un approccio biecamente celebrativo, dove gioca un ruolo essenziale l’elisione degli aspetti controversi del protagonista di turno.

Naturalmente, la celebrazione e un certo grado di sintesi storica avevano sempre fatto parte del genere, giocoforza più incline agli aspetti sentimentali che alla ricostruzione del contesto artistico e sociale. Ma questo non sembra più essere il limite fecondo che ci ha dato grandi melodrammi musicali come La ragazza di Nashville (1979), Bird (1988) o Walk the Line (2003). È un modo per accontentare tutti e nessuno.

Anche solo come biografia, l’Elvis di Baz Luhrmann si erge testa e spalle su una simile concorrenza. Da nessun film ci si può aspettare l’esaustività su una figura della trasversalità e influenza culturale di Elvis Presley. Ma una prospettiva, quella sì è giusto pretenderla. E qui ce n’è una forte e chiara, in controtendenza col discorso revisionista che ultimamente circonda il mito di Elvis. Nel corso dei decenni la figura del cantante di Tupelo ha subìto una sostanziale rivalutazione del suo valore rivoluzionario.

Da ancheggiante agente del caos che sconvolgeva l’America bianca adottando lo shout e la sensualità dei pionieri neri del rock, si è passati a vederlo sempre più come emissario di quella stessa America; il ragazzone belloccio e dal viso pulito che svolse un ruolo di contenimento, sanificando la musica afroamericana ad uso dei bianchi ed usurpando un trono di King che spettava di diritto a uomini e donne con la pelle nera: i Little Richard, Chuck Berry, Rosetta Tharpe, Bo Diddley.

Davanti a un tema così delicato, la lettura di Luhrmann ha il merito storico dell’equanimità. “È un bianco!” urla trionfante il Colonnello Tom Parker (Tom Hanks) capendo che il giovane cantante scoperto da Sam Phillips troverà spalancate le porte di un’industria ancora segregata. Certo, Elvis potè arrivare a vette di successo inaccessibili agli artisti neri che stimava e a cui si ispirava; certo, la sua figura ha per troppo tempo monopolizzato un’attenzione e un culto sproporzionati rispetto ai suoi contemporanei.

Elvis ci sprona però a guardare anche all’altro versante, riapprezzando la rivoluzione socioculturale autentica al fondo del più grande fenomeno commerciale del rock, l’“eccesso di senso prodotto dal capitale”, parafrasando la recensione di Giulio Sangiorgio. Un bianco sì, ma un bianco autenticamente e oltraggiosamente eccentrico, che comprava i suoi sgargianti vestiti a Beale Street insieme all’amico B.B. King, e la cui sfida (non importa quanto cosciente) alle norme di condotta razziale e sessuale dovette davvero costituire un pugno nello stomaco – o una carezza al bassoventre – per i teenager dei rigidi anni Cinquanta.

In questo Elvis giovanile, epidermico, fallico, pànico Luhrmann ritrova l’energia dei suoi film migliori. Il pezzo da antologia è la sequenza della prima esibizione in palcoscenico, dove il regista australiano torna a ruggire togliendo almeno tre dita di polvere dall’icona e dal suo stesso cinema. Del resto è evidente come nello spettacolo indecente del giovane Presley si legga una precisa dichiarazione d’intenti autoriale.

Come dice il Colonnello, l’attrazione più grande è quella che ci fa sentire in colpa nel momento stesso in cui ne godiamo. Motto che potrebbe valere per tutta l’opera di Luhrmann, il cui sfrenato postmodernismo camp ha continuamente flirtato con l’eccesso, l’ostentazione superficiale e il cattivo gusto, guadagnandosi l’odio di buona parte della cinefilia. Intanto proprio la figura di Parker, il grande illusionista che lancia e poi distrugge Elvis, consente al regista di ritagliarsi uno spazio per riflettere wellesianamente (citazioni a Quarto potere, La signora di Shanghai, F for Fake) sul potere ambiguo dello spettacolo, sul legame faustiano fra arte e profitto.

Sdoppiandosi nelle due figure della star giovane, eccitante ma presto superata, e del vecchio imbonitore che perde il controllo sui gusti di un pubblico in continua evoluzione, Luhrmann ha girato un film che sa anche di confessione d’impotenza. Elvis parla dell’inevitabile invecchiamento degli artisti, perfino (anzi soprattutto) di quelli più oltraggiosi. In vicinanza con un altro eccentrico trovatosi dolorosamente demodè, il Tim Burton di Dumbo (2019), l’autore di Ballroom riflette sull’obsolescenza del proprio cinema bistrato e kitsch, sulla normalizzazione a cui vanno incontro i grandi irregolari non appena divengono brand.

La trasformazione del cantante da icona ribellista a bolso chansonnier de papa negli anni della “prigionìa” a Las Vegas, cui per assurdo corrisponde un’eccentricità sempre più isterica, in mano a Luhrmann acquista il sapore amaro del vissuto.