Ci sono due vie, dice Enea nella prima sequenza del film, quella individuale e quella “clannica”, ovvero quella relativa ai clan. Lo dice a Valentino, l’amico aviatore, quando questo gli parla dei problemi della sua famiglia. Ci sono quindi due modi: la solitudine di Valentino, nelle sue nevrosi, nella sua depressione, nei suoi eccessi, oppure la via “clannica” di Enea, nel suo stretto legame con la famiglia, nel suo cameratismo e nella sua vita squilibrata, ma per elezione di sangue.

Enea – secondo film diretto da Pietro Castellitto presentato in concorso a Venezia dopo il successo a Orizzonti del suo esordio I predatori – parla di riflusso pur affidandosi a una costruzione corale. È un film di individualità o di proprietà private, di legami di sangue o di elezioni spirituali. Proprio come il personaggio di Enea (interpretato da Pietro Castellitto), borghesissimo con felpa acetata e blazer, che agisce per motivi di appartenenza: di famiglia, nel difendere il fratello e rincorrere un’idea di nucleo (una moglie per esempio), e di amicizia, nel legarsi stretto a Valentino e nel perseguire la partecipazione a uno stretto circolo (di feste e vita malavitosa) per il quale è disposto a spacciare, rubare e forse anche a uccidere.

Attorno a lui prende vita un circo grottesco – un inferno o un paradiso – un eccentrico flusso ininterrotto di storie, intrecci criminali e famigliari, sentimentali e generazionali. Spaccio, omicidi, risse, golf club, rage room, yoga, programmi televisivi, locali notturni. Frammenti di una famiglia borghese, schegge di un clan, scenari contemporanei in frantumi.

Il cinema di Pietro Castellitto, nella sua forma, sembra ancora incarnare quel processo digitale di clippizzazione che caratterizza l’intero scenario comunicativo contemporaneo. Come I pedatori, anche qui si procede per cataloghi di idee visive, comiche, culturali, per accumulo di storie, di personaggi, un po' come succede per il cinema di altri giovani.

E proprio a questo punto, oggi, che potrebbe essere arrivato il momento di capire meglio da che parte stiano andando questi tentativi di nuovo autorialismo italiano. Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.

Un tempo, quando si parlava delle nuove generazioni, in particolare quelle di rottura degli anni sessanta e settanta, si diceva che avevano portato una nuova linfa anche grazie al fatto di essere nati con il cinema già esistente e quindi con un rapporto più privilegiato ed endemico rispetto alle generazioni precedenti. Oggi forse potremmo dire che questa nuova generazione è nata con il cinema già passato, già dato per scontato, ed è quindi più interessata a rompere le regole che non a cambiarle. Le idee sono visive, frammentate e sempre alla ricerca dell’impatto immediato, sono clippizzate per l’appunto, centrifugate.

Il tutto è un po' difficile – non complesso, ma complicato – eppure va detto che la chiave della nuova generazione passa anche da qui, nel suo sguardo confuso, disorientato, disilluso e autoironico. Nell’aver trovato una risposta alla fatidica minaccia del “alla tua età mio nonno…”. Una risposta cinica. Nell’immagine di una coppia che si bacia e sullo sfondo il figlio, che “scompare”, per lasciare spazio a Roma e a un volo leggero che forse spetterà sempre e solo a loro.