“England is Mine, and it owes me a living”. L’esordio nel lungometraggio di Mark Gill, già candidato all’Oscar per il corto The Voorman Problem, viene direttamente da un verso di Still Ill, uno dei brani con cui gli Smiths debuttarono sulla scena alternative rock di Manchester nel 1984. Ma, in questo film, degli Smiths non si sente nemmeno una canzone. Perché Gill sceglie di raccontare la vita di Steven Morrissey soffermandosi sugli anni della tarda adolescenza, prima della fondazione della band, e soprattutto perché England Is Mine è un biopic non autorizzato (Morrissey ha pubblicato una sua autobiografia nel 2013 per Penguin, ma non è da questa che il film prende le mosse), e dunque segnato da un accesso assai limitato ai brani originali.

Il problema è che Morrissey, prima di diventare un’icona indie, era un ragazzetto supponente e timidissimo, disinteressato al lavoro, immerso nelle sue colte letture e dedito al denigrare la città natale e i suoi abitanti tramite recensioni musicali al vetriolo. E, soprattutto, che dal 1976 al 1982 Morrissey fece pochissimo: un breve sodalizio con Billy Duffy, poi chitarrista dei Cult, e un ben più lungo periodo di depressione a causa del successo di quest’ultimo, che abbandonò i Nosebleeds per trasferirsi nella capitale. L’incontro con John Marr, con cui fonderà gli Smiths, si preannuncia solo nell’epilogo del film. Cosa resta allora? Un aspirante dandy autoproclamatosi genio incompreso – lo interpreta un Jack Lawden (Dunkirk) giustamente anemico e allampanato –, con i poster di James Dean e Oscar Wilde ai muri della cameretta, che fa a gara di dotte citazioni letterarie con l’amica del cuore Linder Sterling. Nessuna traccia del suo talento, del suo estro creativo o della sua poetica, che rimangono tristemente dichiarate ma mai raccontate. E d’altronde, in un’ora e mezza, Morrissey canta sì e no due minuti – giusto il tempo di una brevissima cover di Give Him a Great Big Kiss, in cui Lowden si prodiga in un’accurata imitazione del registro vocale del frontman degli Smiths.

Più audace (ma non del tutto riuscita) è poi la strategia adottata per sopperire alla mancanza di diritti sui brani originali: Mark Gill studia con il consulente Ian Neil una colonna sonora eclettica, che va da Tchaikovsky (il tema de Il lago dei cigni) a Françoise Hardy (Je veux qu’il revienne), passando per le girl band americane degli anni ’60 e My Girl Lollipop di Millie Smith. I brani sono utilizzati con intelligenza e creatività – con scarti interessanti tra immagine e suono, musica diegetica e non – e tracciano inedite linee di parentela con la musica degli Smiths, una band dalle influenze effettivamente variegate. Ma non è abbastanza a far dimenticare al pubblico la mancanza di David Bowie, dei Sex Pistols, dei Roxy Music (citati esplicitamente da Morrissey come punti di riferimento), e ad alleviare il gusto amaro di un’occasione mancata.