A poco più di trent'anni dalla sua uscita, Fa’ la cosa giusta di Spike Lee continua ad essere un film drammaticamente attuale. Lo riscopriamo attraverso un estratto dal volume Spike Lee: orgoglio e pregiudizio nella società americana di Lapo Gresleri (Bietti, 2018). 

Il terzo lungometraggio di Spike Lee è un’opera complessa e raffinata che segna un cambio di passo nella poetica del regista. Dedicato a cinque afro-americani vittime di omicidi da parte di bianchi, coevi fatti di cronaca che suscitarono l’indignazione e la violenta mobilitazione della comunità nera, Fa’ la cosa giusta è infatti il primo film del cineasta ad aprirsi al più ampio contesto interrazziale nazionale, un concentrato di contraddizioni, violenza e orgoglio identitario tra le comunità che compongono il tessuto sociale statunitense: “Ho intenzione di portare la nostra merda sullo schermo, allo stato puro, senza censure”.

Descrivendo "la più calda giornata dell’anno" in una sola strada di Bedford-Stuyvesant dove convivono afro e italo-americani, portoricani e coreani, l’intento di Lee risulta chiaro: raccontare le difficoltà di integrazione e coesistenza tra comunità costrette a vivere una affianco all’altra, incontrandosi e spesso scontrandosi in un misto di pregiudizi e incomprensioni.

L’idea di forzata commistione al centro della pellicola si manifesta non solo sul piano fisico, ma anche su quello visivo, nell’uso che gli abitanti fanno della via e dello spazio condiviso: come nella cultura hip hop (diffusa in quei anni tra i giovani neri statunitensi), la strada è coacervo di influenze etniche, politiche e culturali, ognuna profondamente diversa se non addirittura opposta alle altre, unite in una disarmonica coesistenza.

Come sostiene Fernanda Moneta, “(…) il senso della tribù, tipico delle varie etnie che vivono a Brooklyn, è in realtà un misto di razzismo e nazionalismo (…)” che riflette se non un vero odio, almeno un’intolleranza reciproca tra le parti in causa. Ogni comunità è infatti rappresentata da una precisa identità distinta da lingua – inglese americano, ma con cadenze ed espressioni gergali diverse – musica, moda, riferimenti ed icone: una cultura fatta di simboli piuttosto che valori e tradizioni radicate nelle diverse storie delle varie popolazioni.

La caratterizzazione dei numerosi personaggi in scena permette di riflettere sulla cultura contemporanea americana e non solo, fondata sulla commistione di saperi diversi, appartenenti alle etnie che ne compongono il tessuto sociale che inevitabilmente si mischiano e influenzano reciprocamente, in una forma di vera e propria convivenza. Il problema sta nell’accettare la realtà di essere un unico grande popolo, nonostante le evidenti differenze di colore e di culture native. Se però le minoranze tendono a chiudersi in sé piuttosto che unirsi tra loro e costruire con la maggioranza un unico grande gruppo multirazziale dai valori condivisi, questo evidentemente comporta una diffidenza nei confronti dell’altro, visto come ipotetico usurpatore di uno status sociale che apparentemente può sembrare diverso, ma che in definitiva è il medesimo: l’emarginazione.

La via per raggiungere l’equilibrio civile è lunga e accidentata e richiede grandi sforzi comuni. Cosa fare? Arrendersi davanti alle difficoltà di tale impresa come fanno i tre perdigiorno eternamente seduti a criticare quel che accade loro attorno – i “negri da cortile” come definiva Malcolm X quelli buoni solo a lamentarsi senza reagire per cambiare le cose? Oppure, come esorta DJ Love Daddy ripetendo più volte il ritornello leeano "Wake up!", ad agire cercando di modificare ciò che c’è di sbagliato? E in questo caso in che modo? Violentemente come fa Mookie (interpretato dallo stesso Lee), innescando la seconda parte della rivolta rionale culminante nell’incendio (della pizzeria di Sal) sulle note lontane di Fight the Power (dei Public Enemy)? Con una lenta ma efficace lotta pacifica basata sul dialogo reciproco? O forse una via di mezzo tra le due?

A questo il regista non dà risposta, o meglio non dà la risposta, bensì lascia lo spettatore libero di trovare una strada, di scegliere autonomamente la propria soluzione in un misto tra bene e male, tra Amore e Odio come suggerisce il monologo di Radio Raheem in una citazione da La morte corre sul fiume. Ma a differenza del film di Charles Laughton, in cui il sedicente predicatore illustrava il conflitto morale colpendo un pugno contro il palmo dell’altra mano come in un vero combattimento, qui il ragazzo incrocia le dita delle mani esprimendo con quel gesto la sua personale visione della vita. L’eterna lotta tra i due estremi etici è dunque l’essenza stessa della natura umana: senza falsi perbenismi, Lee evidenzia come non esista il Bene senza il Male, parti complementari che si battono brutalmente e costantemente e se a vincere è tendenzialmente l’amore, è solo con la violenza.

Spike dunque suggerisce che se non si aprono le menti all’accettazione di chi è diverso ma essenzialmente uguale a sé, non è possibile alcun progresso, e lo sforzo del singolo risulterà sempre vano e inconcludente, ennesima espressione di frustrazione e disperazione che inevitabilmente trova in un gesto estremo uno sfogo temporaneo e parziale. Nessuno nel film risulta una figura positiva, ognuno è caratterizzato da debolezze e limiti morali e tutti restano legati alle proprie convinzioni, ancora più radicate dopo la nottata di lotta. Lo scontro verbale tra Mookie e Sal il mattino seguente ne è la dimostrazione palese: i conflitti emersi hanno lasciato dietro sé solo macerie da cui sarebbe possibile ripartire a ricostruire, gesto che però nessuno almeno ora è intenzionato a compiere, atto mancato espresso nell’ultima inquadratura in cui i due di allontano dandosi le spalle.

La scelta di fare del proprio personaggio una figura ambigua e tendenzialmente negativa fa mancare a Lee la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1989, assegnata dall’allora Presidente di Giuria Wim Wenders a Sesso, bugie e videotape di Steven Soderbergh, considerando il lavoro dell’afro-americano e in particolare l’agire di Mookie “anti-eroico”. Il film riceve inoltre pesanti critiche anche da buona parte della stampa statunitense che, accusando il cineasta di omofobia, razzismo e fascismo, vede nella pellicola e nel gesto del suo autore/interprete un’incitazione alla rivolta nei ghetti in un clima già teso per le imminenti elezioni comunali newyorkesi.

Diversa è invece l’accoglienza all’estero e in particolare in Italia, dove il film riscuote un notevole successo confermando il talento del regista e facendone per quasi dieci anni un mito, nome di spicco e culto di un nuovo cinema a stelle e strisce, vigoroso e potente nello stile come nei contenuti.

L’opera è sicuramente “pericolosa”, non certo però per le posizioni e le idee espresse quanto per i temi trattati, le cui modalità di approccio dimostrano tuttavia una maturità raggiunta rapidamente dall’autore, capace di esprimersi su una questione tanto delicata con passione, ma anche equilibrio, evitando retoriche e suscitando nello spettatore un interesse vero. Un invito a leggere in profondità la realtà circostante, con uno sguardo più ampio che tenga conto di tutte le ragioni in causa e delle condizioni sociali che le motivano. Spike ha fatto qui, davvero, la cosa giusta.