“Il sospetto è che se Bass potesse disfarsi del tutto di attori e dialoghi riuscirebbe molto meglio a esprimere il suo interesse grafico”. Nella sua recensione del 1974 Jonathan Rosenbaum coglie esattamente l’originalità di Fase IV: distruzione Terra, ma commette l’errore di considerare debolezza del film quella che oggi appare come una scelta deliberata da parte di Saul Bass, qui alla sua unica regia.

Per Rosenbaum, che ammira l’impianto visivo del film ma ne critica la narrazione, Bass è costretto a sacrificare la sua vocazione di grande designer a una trama che sia intellegibile secondo i canoni della fantascienza “commerciale”: in effetti il plot di Fase IV è stato più volte accostato alla fantascienza paranoica anni Cinquanta, in particolare quella dei “bug-eyed monsters”, da Assalto alla terra a Tarantola.

La lettura è legittima, sia alla luce dell’insuccesso commerciale del film che dei conflitti sorti intorno al suo finale: originariamente Bass aveva preparato una sequenza di stampo onirico-psichedelico simile a quelle dei suoi celebri titoli di testa, che fu poi tagliata in seguito ad alcuni screen test negativi e sostituita da un più innocuo voice over (la versione presentata al Cinema Ritrovato integra e consente di confrontare entrambe le versioni).

Se una lettura per cui gli istinti grafici di Bass confliggono con le esigenze produttive è sensata e perfino necessaria per spiegare la storia del film, essa non basta però a liquidare le peculiarità narrative individuate da Rosenbaum: la legnosità della recitazione, l’inconsistenza dei dialoghi, e in generale la debolezza di tutto ciò che riguarda l’elemento umano/narrativo rispetto a quello visivo/spettacolare.

Col senno di poi – per quanto possano aver contribuito all’insuccesso del film – queste caratteristiche non sembrano riducibili a una forzatura imposta dai produttori all’arte di Bass, ma possono e devono essere lette come parte di un preciso progetto estetico del regista. A fare testo in questo senso, avvalorando l’ipotesi di una progettualità più deliberata, è l’ombra gettata su Fase IV dal film che fa da spartiacque per il genere a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, continuamente citato come influenza non solo sul film di Bass ma su tutta la fantascienza settantina: parliamo ovviamente di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick.

2001 è un game changer totale non solo per l’impianto visivo rivoluzionario e per come trasforma la fantascienza cinematografica in “roba seria” (legittimata a disquisire filosoficamente e antropologicamente). Soprattutto negli anni immediatamente dopo l’uscita, a fare scuola è anche un altro aspetto, quello che porterà Cronenberg a chiamare Kubrick una “macchina che filma altre macchine”: l’allusione è al fatto che in 2001 l’elemento umano decade in favore del non-umano, inteso nelle due accezioni difficilmente distinguibili dell’animale (prima) e della macchina (poi).

Fase IV – come un altro esponente della fantascienza “dura” post 2001, Andromeda di Robert Wise (1971) – non è solo un film di genere con una trama e dei personaggi deboli: è un film d’autore (da dentro e attraverso il genere) che prende sul serio la sfida kubrickiana di un cinema in grado di fare a meno dell’umano, di cui si investigano i prodromi (dawn of man) e gli esiti tecnologici futuribili, ma si bypassa totalmente qualunque fase umanista intermedia. Da decenni i commentatori notano come paradossalmente l’unico vero “personaggio” di 2001 sia HAL 9000, il più degno di empatia a fronte di personaggi umani totalmente vacui e freddi.

Bass arriva a conclusioni molto simili con Fase IV, un film che si rifà a 2001 in modo ancora più pedissequo di quanto si dica: non solo perché la premessa narrativa investiga l’origine dell’intelligenza in una mente animale (in questo caso la mente-collettivo delle formiche); ma perché tutta la seconda parte, con gli scienziati imprigionati nel laboratorio e impegnati nel duello intellettuale a distanza con le loro avversarie, è parente strettissima delle partite a scacchi fra HAL e Bowman.

Come Kubrick Bass lavora per ottundere l’elemento umano, presentando protagonisti privi di carisma che si esprimono in modo freddamente tecnico e mancano di empatia, come nella scena agghiacciante in cui il dottore interpretato da Nigel Davenport non batte ciglio davanti alla morte di due persone, ma continua a raccogliere dati per l’esperimento. Questo avviene anche visivamente: Bass presenta spesso i due protagonisti privi di volto, nascosti da occhialoni, scafandri o dalla superficie metallica di un’automobile. E ottiene dagli attori una recitazione che gareggia per distacco con quella di Keir Dullea nel film di Kubrick.

La confusione kubrickiana fra un elemento umano sempre più brutale e “animalesco” e un elemento animale/macchinico sempre più “umano” si fa addirittura didascalica nel colpo di scena (abbastanza prevedibile) che chiarisce come le parti fra gli scienziati e il loro oggetto di studio si siano invertite: siamo noi, gli umani, i protagonisti dell’esperimento condotto da loro, gli animali.

Al di là delle possibili letture legate all’epoca, dalla paranoia della sorveglianza all’utopia-distopia collettivista incarnata dal “formicaio”, è interessante notare come Bass applichi al tema la sua sensibilità grafica, che si costruisce per accumulo di dettagli fino a esplodere nel finale psichedelico. Se prima la figura umana nel laboratorio è equiparata all’insetto nel formicaio (un documentario naturalistico su scienziati umani? O un film d’azione con protagoniste formiche?) qui uomo e donna si perdono definitivamente in un paesaggio fantasmagorico, che getta un ponte fra i titoli animati di Bass e la sequenza “stargate” di 2001: Adamo ed Eva, non più scimmie ma novelli insetti, alle porte dell’(ir)razionale.