Febbre da cavallo di Steno è qualcosa di più di una commedia. È qualcosa di più perché all’epoca della sua uscita al cinema, nel 1976, non riscosse il successo sperato. Se è vero che la cultura cinematografica costruisce la propria identità nel tempo, attraverso un processo che, molto spesso, ha a che fare con la deviazione, sono proprio le opere incomprese quelle che riprogrammano lo statuto dell’arte permettendogli di riscoprirsi e di ricrearsi. Di fatto, Febbre da cavallo rappresenta a pieno titolo un film che solo in seconda battuta è riuscito a rivelare al pubblico e alla critica tutto quello che ha da dire. Venne etichettato come “un filmetto senza infamia e senza lode”, probabilmente a causa della satira che mette in scena, apparentemente disimpegnata e forse troppo lontana dall’umorismo dolceamaro che contraddistingue i capolavori indiscussi del genere comico italiano.
Divenuto un cult dopo essere stato mandato in onda su molteplici reti private romane che ne intuirono la portata rocambolesca e accattivante, l’opera di Steno ha avuto anche il merito di consacrare l’attore Gigi Proietti, ancora Luigi nei titoli di testa del film, al mondo del cinema, del teatro e della televisione italiana, nonostante avesse già lavorato con autori importanti come Damiano Damiani, Elio Petri, Alberto Lattuada, per citarne alcuni. È interessante riflettere sulla sua interpretazione ne L’eredità Ferramonti, altra pellicola del 1976, diretta da Mauro Bolognini, dai toni più drammatici e intensi, e sulla figura irriverente di Bruno Fioretti, il Mandrake del racconto steniano: due personaggi in antitesi che, messi a confronto, chiariscono ulteriormente la poliedricità dell’attore romano.
Il 1976 rappresenterebbe del resto una sorta di spartiacque tra la commedia all’italiana intesa in senso stretto, ironica ma allo stesso tempo capace di interrogare la realtà sociale di cui si fa portavoce (nello stesso anno esce in sala Brutti, sporchi e cattivi di Scola, uno dei capisaldi della commedia impegnata) e le sue trasformazioni, che cominciano, a partire dalla metà degli anni ’70, a tradursi in nuove modalità di narrazione nelle quali la comicità porterà ad epiloghi sempre meno fausti. Febbre da cavallo è un film non troppo facile da categorizzare poiché ha tutta l’aria di essere la traduzione cinematografica di una Roma caciarona e goliardica, nella quale la passione per i cavalli degli scalmanati che la abitano diventa l’espressione massima di un’esistenza tutta votata al vizio, al rischio, all’inganno.
In realtà, sotto gli iconici e farseschi personaggi, il già citato Mandrake, Er Pomata, interpretato da un macchiettistico Enrico Montesano, Felice Roversi, il terzo dei “febbristi” della combriccola, che rievoca i tipi indolenti dei film di Troisi, si nascondono gli esiti di una riflessione allegorica, dai tratti fumettistici, sulle strategie che il picaro adotta per stare al mondo. Tra birbanterie e menzogne, montagne di debiti e sfilate in pelliccia, cavalli vincenti o “paralitici” che corrono pieni di biada e di agognati quattrini, il film conquista grazie a una colonna sonora memorabile dal ritmo spensierato e incalzante e si regge sulla costruzione di un impianto narrativo che ruota prima di tutto intorno ai luoghi: l’ippodromo rappresenta lo spazio entro cui un’immaginabile vittoria può e deve essere inseguita a tutti i costi a discapito delle consuetudini, della legge, della normalità, manifestandosi, per tutta la durata del film, come una costante utopia.
La stanza di Er Pomata, con gadget e poster a tema ippico attaccati alle pareti, riproduce il microuniverso del fanatico: il posto perfetto per canzonare familiari, amici e creditori. Il fan Er Pomata è l’adolescente fuori dal mondo. Centrale è anche il personaggio di Mandrake, mascalzone, attore di insulsi spot pubblicitari, squattrinato e “figlio di puttana”, come lo definisce a più riprese la sua fidanzata Gabriella, interpretata da una matura Catherine Spaak. Attraverso le sua natura camaleontica, l’ossessione per i cavalli e gli imbrogli per racimolare denaro, Mandrake incarna, a tutti gli effetti, lo stereotipo del giocatore che fallisce e si rialza solo per provare a fallire meglio. Ma “Chi è il giocatore delle corse dei cavalli?”, si chiede il falso avvocato De Marchis, nell’emblematica scena del processo, dove è accusato, insieme agli altri scommettitori, di aver architettato il piano per truccare la corsa del Gran Premio degli Assi. La brigata cerca di convincere il giudice della propria innocenza e il discorso di Mandrake risulta essere risolutivo soprattutto nei termini di una spiegazione “in senso lato” della figura del giocatore: “Sono io, siamo noi, ci siamo tutti … Chi gioca ai cavalli è un misto, è un cocktail, è un frullato de roba, è un minorato, un incosciente, un ragazzino, un fregnone, un fanatico, è uno che impiccia, traffica, ‘mbroglia, more, uno che azzarda, spera, rimore solo per poter dire: ho vinto”.
Con gli ingredienti tipici dell’avanspettacolo, una caratterizzazione accuratissima di tutta la tassonomia dei personaggi e una sceneggiatura che oscilla tra l’ironia e il sense of humor di pirandelliana memoria, la commedia di Steno ha regalato al cinema e all’immaginario collettivo un affresco della romanità che popola le sale da gioco non risparmiandosi di offrire il ritratto dello scommettitore, che, al di là dello spazio filmico, assume un senso universale: l’uomo che gioca per vincere, ma che rischiando si imbatte inevitabilmente nella sconfitta. Se è vero che bisogna saper perdere, come cantava una vecchia canzone, bisogna anche saper rischiare pur di tendere alla vittoria. “Capita nella vita di fare cose che piacciono senza riserve, cose che vengono su dai visceri”, dichiara Dino Buzzati in uno dei suoi scritti più sottovalutati e dimenticati, Febbre da cavallo ha provato a mettere in immagine, planando sulle ali della leggerezza, questa dichiarazione d’amore verso la grande scommessa che è la vita.