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“Vita da cani” e il fascino nostalgico dell’avanspettacolo

La storia produttiva di Vita da cani si intreccia in maniera indelebile con quella di un altro film sul mondo dell’avanspettacolo, il primo in cui Fellini vide il suo credito come regista insieme al maestro Alberto Lattuada, ossia Luci del varietà. All’epoca gli spettatori non apprezzarono troppo l’uscita così ravvicinata di due film tanto simili nella trama che seguivano pressappoco lo stesso canovaccio: le avventure nella provincia italiana del capocomico di una scalcinata compagnia di varietà, furtivamente illuminate dalla “polvere di stelle” del successo, prima inseguito come sogno irraggiungibile e poi subito riconsiderato come moneta con un prezzo troppo alto da pagare in termini di moralità. Eppure oggi siamo grati al cinema per aver avuto la lungimiranza di immortalare l’essenza di un mondo che è ormai scomparso, e che se allora era considerato come squallido e da dimenticare, oggi noi vediamo come romantico e ormai perduto.

“Febbre da cavallo” e la vita come scommessa

Con gli ingredienti tipici dell’avanspettacolo, una caratterizzazione accuratissima di tutta la tassonomia dei personaggi e una sceneggiatura che oscilla tra l’ironia e il sense of humor di pirandelliana memoria, la commedia di Steno ha regalato al cinema e all’immaginario collettivo un affresco della romanità che popola le sale da gioco non risparmiandosi di offrire il ritratto dello scommettitore, che, al di là dello spazio filmico,  assume  un senso universale: l’uomo che gioca per vincere, ma che rischiando, si imbatte inevitabilmente nella sconfitta. Se è vero che bisogna saper perdere, come cantava una vecchia canzone, bisogna anche saper rischiare pur di tendere alla vittoria.

Raffaele Pisu o dello spettacolo italiano

Quasi sempre caratterista, Pisu si ritrova protagonista curiosamente nell’unico dramma interpretato prima delle prove più recenti: è il disperato stagnaro romano che tenta di tornare a casa dalla Campagna di Russia in Italiani brava gente (1964), titanica e sfortunata coproduzione italo-sovietica di Giuseppe De Santis. Quello che avrebbe dovuto rappresentare un ambizioso punto di svolta per Pisu si è, invece, rivelata un’occasione mancata. Lo sfaccendato rampollo di un medico nella fondamentale commedia borghese Padri e figli (Mario Monicelli, 1956), il marinaio innamorato ne I pappagalli (Bruno Paolinelli, 1955), l’infido spione in Susanna tutta panna (Steno, 1957) sono gustosi guizzi, ma mai niente di davvero indimenticabile. Si ha l’impressione che al cinema nessuno abbia mai voluto davvero puntare su questo comico dall’animo sornione e il fisico signorile, che ha dovuto aspettare trentacinque anni per un’imprevedibile rentrée cinematografica.

“I tartassati” dal qualunquismo al senso civico

Qui, sui titoli di testa, una voce tuonante declina il verbo “pagare” arrivando infine ad un “essi riscuotono!” che ammicca all’insofferenza antistatale del pubblico e si riallaccia all’“e io pago!” reso immortale proprio da Totò in 47 morto che parla. In realtà, Steno ha spesso dissimulato sotto un presunto populismo anticasta la consapevolezza che la prima responsabilità sia da rilevare tra i pari, evitando di attaccare il bersaglio più facile, cioè lo Stato. Ci è chiaro da subito che il cavalier Pezzella è un mariuolo, ma anche che il vero approfittatore è il consulente fiscale; e ha ragione il rispettabile maresciallo Topponi a pretendere il maltolto. Altro che qualunquismo, qui c’è un senso civico che tende infine al solidarismo.