In occasione delle celebrazioni felliniane, proseguiamo con la pubblicazione di alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema, contenuti nel fondo Calendoli. Dopo Italo Calvino, è la volta di Indro Montanelli che in occasione del grande successo ottenuto negli Stati Uniti da Le notti di Cabiria (1957), scrive un pezzo sull’accoglienza trionfale ricevuta da Fellini e Giulietta Masina a New York ("Il Corriere", 29 dicembre 1957). Il cinema non è fatto solo di film. La fascinazione che esercita sul pubblico esce dai set e dalle sale cinematografiche. Per vivere ha bisogno di costruirsi una propria mitologia che si nutre delle vite dei personaggi che lo popolano. Fellini è tra i molti, simbolo, vittima e al tempo stesso carnefice per eccellenza di questo meccanismo. Montanelli ne fa un ritratto perfetto, riuscendo con la sua scrittura a trasformare "le buone cose di pessimo gusto", in una marcetta comico-lirica di estrema eleganza.

 

Incontri: Fellini

di Indro Montanelli

Alcune settimane or sono, Federico Fellini e sua moglie, Giulietta Masina, andarono a Nuova York per assistere alla prima di Le notti di Cabiria, cioè, a mio avviso, del più bel film in senso assoluto, che abbia prodotto la nostra cinematografia dai fugaci anni d'oro dell'immediato dopoguerra.

A stare non a quanto ne dice lui, che non dice nulla, ma a quanto ne ha scritto la stampa di laggiù, dovette essere per ambedue, regista e interprete, una grossa soddisfazione. Sebbene delle meno congeniali al palato del pubblico americano, la pellicola ebbe un successo non di stima e limitato a una ristretta categoria d'intenditori, come purtroppo in genere capita a quelle nostre. Critica e pubblico furono, una volta tanto, d'accordo nel riconoscerne i meriti d'eccezione. [...]

Fu così che un giorno si trovarono in uno strano locale gestito dalla più pericolosa giornalista americana, la Hopper, che come "gossip columnist" ha ormai oscurato la fama di Elsa Maxwell, e che lì tiene una rubrica televisiva intitolata On the Spot, che vuol dire "sul posto" o "su due piedi". Avrete già capito, dal nome, di cosa si tratta. Un avventore le cui vicissitudini abbiano suscitato nel pubblico qualche interesse può vedersi ruzzolare addosso d'improvviso una macchina da ripresa mentre un intervistatore lo bersaglia delle domande più impreviste e imbarazzanti. [...]

Questa sorte toccò anche a Fellini che, oltre tutto, non ha dell'inglese una padronanza assoluta. […]

Ma ecco, mentre si dilunga sulla spiegazione tecnica di una sequenza, la voce dell'intervistatore interromperlo e chiedergli a bruciapelo: «Sappiamo che lei è molto amico di Roberto Rossellini. […]». «Non è al corrente che il signor Rossellini è andato in India?» incalzava la voce sotto il controllo degli orecchi e degli occhi di un invisibile ma sterminato pubblico di telespettatori. «Sì, sì...». «E che in India si è innamorato di un'altra donna con cui ha messo su una seconda, anzi una terza, famiglia?». «Sì, certo... annaspava il povero Fellini. «E come giudica questo gesto? Lo trova legittimo?». «Be’, vede» - fece, continuando a sudare, il povero Federico che per la prima volta si rendeva conto di cosa fosse il maccartismo - «l'India è lontana...». «Come lontana? Cosa vuol dire?... Si spieghi...». «No, voglio dire che anch'io, che ho una moglie... eccola lì... e credo di essere un buon marito, devoto affezionato, fedele... se un giorno vado non dico in India, che è all'altro capo del mondo, ma anche soltanto a Viterbo...». «Viterbo?» - interruppe la voce - «Cos'è Viterbo?». «Una città ad una settantina di chilometri da Roma». «Ah!... E perché a Viterbo?». «No, non è che ci vado» - annaspò Fellini. - «Dico soltanto che potrei andarci...». «E con ciò» - troncò la voce - «Che succede se va a Viterbo?». «Può darsi che non succeda nulla. Ma può darsi pure che anche a me capiti... diciamo così... di smemorarmi...». «Di che?». «Di smemorarmi».

L'insolito verbo, tradotto in inglese, diventò talmente insolito, da esigere l'intervento di un interprete, che così tradusse il pensiero di Federico: «Il signor Fellini dice che, se va a Viterbo, perde la memoria...». […]

«Signor Fellini» - interruppe la voce in tono inquisitoriale - «chi c'è a Viterbo, di così importante per lei da farle perdere la memoria?». «Nessuno, lo giuro» rispose precipitosamente Federico, addossandosi ancora di più allo schienale della sedia come certo dovettero fare Ciano e compagni al momento della scarica fatale. […]Ma oramai si sentiva perduto dinanzi a quei milioni di telespettatori, e capì che non sarebbe mai più riuscito a persuaderli della sua innocenza. «È stata - dice rabbrividendone ancora - la più terribile prova che l'America mi abbia inflitto».

Fellini è uno dei più deliziosi raccontatori che io conosca. Non lo si direbbe a vedere i suoi film dai tagli impervi, dove ogni personaggio sembra guardar la vita con un occhio che ride e l'altro che piange e la poesia balena fra "tranches de vie" di una potenza realistica sovente crudele. Questo ragazzone malaccorto, dal profilo di un imperatore romano della decadenza e dallo sguardo buono e remissivo, parla con un filo di voce, dolcemente e senza gesti, con l'aria di chi tema di non saper pronunciare che sciocchezze. Non lo vedevo da un paio d'anni, e avevo paura che il successo me lo avesse sciupato. No, no, grazie a Dio, è sempre lui, l'ingenuo gigante di provincia, insicuro di sé e imbarazzato della propria mole, che conobbi al suo debutto nella capitale.

Lo avete del resto conosciuto anche voi, lettori, che non lo avete mai visto: era quel protagonista minore dei suoi Vitelloni che nel finale del film - ricordate? - trova la forza di abbandonare la cittaduzza neghittosa e senza orizzonti in cui sino ad allora ha vegetato coi suoi compagni, e in terza classe parte senza quattrini né programmi, pungolato non si sa se dalla speranza o dalla disperazione. […]  E Dio sa se ce ne vuole, di coraggio e di volontà, ad azzardare quel passo. Gli eroismi che si compiono dopo, quando si riesce a compierne, sono uno scherzo in confronto allo strattone che a un certo punto il terrore di soffocarvi ci obbliga a dare alla casa paterna, a quel mondo sonnacchioso e ovattato di mediocre sicurezza, al Circolo, al biliardo, agli scherzi di caffè, alla sottintesa complicità in cui ognuno giustifica il proprio fallimento con quello degli altri, elevando a regola morale e sociale, cui sia addirittura sconveniente contravvenire, la pigrizia, la meschinità e la vigliaccheria.