Meta irraggiungibile o condizione esistenziale? La felicità che dà il titolo al primo lungometraggio diretto da Micaela Ramazzotti oscilla ripetutamente tra questi due poli, senza risolvere il dilemma ma offrendosi come invito a perseguirla sempre, nonostante tutto.

Desiré Mazzoni (Ramazzotti, tenera e caparbia) si divide tra un compagno con il quale progettare il futuro (Sergio Rubini) e una famiglia d’origine che la riporta continuamente al passato, con due genitori criminalmente immaturi (Anna Galiena e Max Tortora) e un fratello (Matteo Olivetti, dolce e fragile) che paga lo scotto di essere rimasto in casa senza la protezione della sorella.

Il personaggio di Desiré (“con l’accento”) è il centro nevralgico di una serie di (dis)equilibri che partendo dalla sfera familiare si ripercuotono su quella sociale, economica e professionale. Se infatti la parabola narrativa del fratello Claudio dimostra a più riprese come il pilastro su cui si regge la famiglia Mazzoni fosse (e sia tuttora) proprio la giovane donna, l’accurata rappresentazione della protagonista riesce a delineare un modello di figura femminile che deve destreggiarsi costantemente per risultare credibile agli occhi degli altri, per farsi accettare e rispettare nelle proprie convinzioni e nel proprio agìto, nel contesto di coppia come nell’ambito lavorativo.

In questo, Ramazzotti compie un’operazione notevole, facendo propria l’immagine che altri autori, altri registi hanno disegnato sul suo corpo e sul suo modo di recitare e trasformandola in una forza che catalizza le altrui pulsioni all’azione, con l’effetto di rendere il “suo” personaggio un soggetto attivo e non più un semplice oggetto (del desiderio, della fantasia, del pensiero). Ramazzotti riprende la veste cinematografica con cui ha conquistato il suo pubblico e se ne appropria facendone uno sguardo sul mondo, un modo di vedere le cose.

È vero che Desiré assomiglia ai personaggi interpretati da Ramazzotti in film come Anni felici (Daniele Luchetti, 2013), La pazza gioia (Paolo Virzì, 2016), La tenerezza (Gianni Amelio, 2017), Gli anni più belli (Gabriele Muccino, 2020) per quel suo essere un po’ svampita e ingenua, ma è altrettanto vero che si porta dietro anche un po’ della Maria di Una famiglia (Sebastiano Riso, 2017) e – allargando gli orizzonti – della Eli interpretata da Isabella Ragonese in Sole, cuore, amore (Daniele Vicari, 2016) per quanto concerne la sua tenacia, la sua forza interiore, la sua determinazione.

Ramazzotti dunque riesce a costruire (anche grazie alla sceneggiatura scritta insieme ad Isabella Cecchi e Alessandra Guidi) una protagonista credibile e coinvolgente, a partire dalla quale delineare un quadro sociale e familiare terribile. Certo, il film non è perfetto e i comprimari appaiono spesso più come incarnazioni di funzioni narrative che come reali personaggi, ma Galiena e Tortora sono perfetti nell’interpretare questi genitori egoisti e manipolatori, che non esitano a ricattare moralmente la figlia ostacolandone sempre il tentativo di costruirsi una vita autonoma. Squallidi nella loro ignoranza, sanno suscitare al contempo sdegno e compassione, pietà e rabbia per la loro cecità nei confronti del malessere del figlio, che risulta così abbandonato a sé stesso.

Il legame tra Claudio e Desiré, unica persona che lo può e lo vuole davvero aiutare, è bellissimo e reso con grazia sia a livello verbale sia dal punto di vista visivo (la scena nel giardino in mezzo agli irrigatori automatici): questo legame è il vero motore del film e dell’agire della protagonista, per la quale rappresenta non un obbligo “sociale” dovuto alla parentela ma la forza inesauribile che spinge all’altruismo e alla volontà di salvezza (anche la propria, attraverso quella altrui).

Non stupisce allora che Felicità abbia vinto il Premio degli spettatori - Armani beauty della sezione Orizzonti Extra all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: l’opera di Ramazzotti presenta allo spettatore famiglie tossiche e disfunzionali, elegge a eroina una “donna storta” (parole dell’autrice), pone in evidenza la necessità di ricontestualizzare nel nostro presente il ruolo e il concetto stesso di famiglia, eppure, nel suo sostenere l’idea che tutti hanno diritto alla felicità, risulta un film poetico, delicato, emozionante.