In 8½, la tensione che forzava gli argini del racconto tradizionale in La dolce vita esplode: per oltre due ore, la platea si immerge direttamente nel tumultuoso processo creativo del regista, grazie ad un accumulo torrenziale di personaggi e situazioni. Forza centripeta di questo vortice di donne bellissime, produttori ansiosi e intellettuali pedanti è il continuo alternarsi di realtà e fantasia, che confonde presente e passato, sogno e veglia. Nella loro danza, i due poli si avvicinano sino a mescolarsi, facendo emergere nel reale le forme dell'immaginario. Ottimo esempio di questo processo è la colossale rampa di lancio fatta costruire dal protagonista, che proviene dall'infanzia dello stesso Fellini: il regista non ha mai nascosto la sua passione per Flash Gordon, space opera a fumetti di cui voleva dirigere un adattamento per il grande schermo. La pellicola fantascientifica di Guido non si farà, come il Flash Gordon felliniano, ma l'enorme rampa di lancio resta, ormai costruita, a testimoniare la sua débâcle. Promessa mai realizzata, il non-film all'interno di descrive efficacemente il ruolo che acquisiranno le produzioni degli anni Sessanta nella storia della fantascienza italiana.                                                                                               

Il sci-fi tricolore non ha mai avuto vita facile: un mix di fattori culturali ed economici ha impedito al nostro paese di elaborare una lettura alternativa del genere, invadendo le proprie sale con xerox di pellicole americane, film-metafora colti e sporadiche imprese high budget dagli esiti disastrosi (Jackpot) o più semplicemente trash (Nirvana). L'infatuazione storicista che percorre il primissimo cinema italiano, da La presa di Roma sino a Cabiria, ha contribuito a creare un retroterra ostile per le avventure spaziali: le pellicole con una base storica più o meno finzionale contribuivano, nei primi decenni del Novecento, a costruire un discorso legittimante intorno alla settima arte, mentre l'iconografia della fantascienza, identificata per lo più con quella dei magazine pulp, era considerata infantile e svilente. Dove Méliès era riuscito a concretizzare la tensione al meraviglioso che il genere suggeriva, la cinematografia nostrana ne recepisce soltanto l'aspetto baracconesco: non è un caso che una delle prime espressioni della proto-fantascienza filmica italiana, Le avventure straordinarissime di Saturnino Farandola, sia più vicina ai racconti di avventura per ragazzi che alla produzione di Wells o Verne.

Durante gli anni Cinquanta, quando il sci-fi cinematografico vive il suo periodo d'oro, l'Italia è in pieno Neorealismo, una poetica agli antipodi degli invasion movies d'oltreoceano: l'ideale di un cinema spontaneo, volto a valorizzare la quotidianità, mal si coniuga agli alieni di gomma che affollano le sale a stelle e strisce. Durante la decade successiva però, la distanza tra le due filmografie nazionali pare ridursi: in Italia Margheriti firma un gran numero di b-movie a basso costo, mentre l'horror fantascientifico Terrore nello spazio di Bava stupisce e terrorizza anche le platee internazionali, al punto da diventare un'ispirazione per il fortunatissimo Alien. Dopo i successi dei Sessanta, le speranze della fantascienza tricolore si arrestano purtroppo davanti al monolite di  2001: Odissea nello Spazio. L'approdo al genere di Kubrick riesce a coniugare una riflessione complessa con altissimi standard di regia e messa in scena, sostenuti da un investimento irraggiungibile per la piccola Cinecittà.

I tentativi di fantascienza politica del Belpaese, che sfruttavano un'iconografia minimale, si infrangono davanti ad uno spettacolo completo, che impressiona sia per l'aspetto visivo che per quello concettuale, condannando di fatto la maggior parte delle produzioni ad arretrare nel campo dei cloni a basso costo. Se precedentemente anche il sci-fi d'oltreoceano scadeva spesso in storie immature e produzioni risicate, la pellicola di Kubrick costituisce un termine di paragone con cui il cinema italiano non riuscirà a confrontarsi, complice, oltre al differente retroterra culturale, anche una ben più esigua disponibilità di capitali.                                                                                                      

Gli anni Sessanta costituiscono quindi il momento in cui la fantascienza italiana pareva avere lo spazio sufficiente per reclamare una propria specificità, un ultimo guizzo prima di arrendersi ad essere il fanalino di coda del Millennium Falcon statunitense. Da questo punto di vista, la rampa di lancio di Fellini costituisce quindi un'ottima metafora del nostro sci-fi degli anni Sessanta: una base pronta per accogliere il decollo che non avverrà mai.