Fellini e la cultura popolare. Se è vero quanto recentemente affermato da Andrea Minuz in Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (Rubbettino, 2012), ossia che “Fellini non fosse solo un sognatore distratto e un visionario, ma un artista profondamente immerso nel suo milieu culturale, attento alle questioni culturali e politiche dell’Italia in cui è vissuto” (pensiamo alla sua lotta contro la pubblicità berlusconiana in TV), allora potremmo non essere del tutto fuori strada se intendessimo qui parlare di un Fellini Pop, dove il suffisso “pop” sta per quel concetto di popolare inteso nei termini gramsciani di una teoria “nazionalpopolare” che va oltre il folklorico per includere fenomeni popolareschi tra i più rappresentativi di un’epoca. Ci riferiamo a tutti quei prodotti culturali che hanno inesorabilmente nutrito il background dell’uomo Fellini e a cui il regista ha poi attinto a piene mani per affrescare la sua idea cinematografica del mondo: i fumetti, il fotoromanzo, l’avanspettacolo, il circo. 

Soprattutto nella produzione del primo Fellini (1950-1960) da Luci del varietà passando per Lo sceicco bianco fino a La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, nella “fase” del suo cinema che fu definita da Brunetta come "realismo di costume", vediamo i chiari sintomi di una essenza innegabilmente popolare (parafrasando la celebre definizione di Spinazzola) nel senso di film sul popolo che sono anche film per il popolo. Siamo infatti convinti che il cinema felliniano sia uno dei rari prodotti della nostra cultura, spaccata nell’eterno dualismo tra highbrow e lowbrow, che ha avuto la capacità sensazionale di unire in sé i due filoni antitetici della produzione dell'immediato dopoguerra: i film di Fellini erano infatti film d'autore, che però la gente andava numerosa a guardare al cinema (soprattutto da I vitelloni in poi). E lo faceva per via di quel fenomeno di rispecchiamento identitario comune ai film di massa, che faceva accettare alla classe media o medio bassa le proprie culture regionali, i propri stili di vita, il rapporto con sé stessi attraverso una forma di "autorizzazione" che veniva dalla rappresentazione cinematografica. 

Così il cinema di Fellini fu popolare, perché portava sul grande schermo aspetti, temi, “mitologie urbane” che per definizione rientrano nella sfera del popolare come “il basso materiale corporeo, la regressione, la volgarità contrapposta ai valori alti”, ma deve essere inteso come popolare anche nel senso che riusciva così a dialogare con il pubblico delle masse. In film come Lo sceicco bianco ad esempio Fellini tocca tematiche "tradizionali" e di carattere "morale" come l'amore coniugale e il viaggio di nozze di due piccoli provinciali, accostandole ad un'altra matrice culturale che è quella dei fotoromanzi come "fabbrica di sogni". Il risultato è un "ambiente di piccole volgarità" (Mereghetti) esilarante e a tratti grottesco che veicola nel suo finale una morale conservatrice cattolica accettata con rassegnata condiscendenza dai più, negli anni ‘50. 

Il collegamento tra Fellini e il pop è talmente vivo da trovare addirittura una sua incarnazione nelle fattezze di quell’attore che più di ogni altro si è fatto portavoce ed epigono dei semi del popolare/basso di cui la cinematografia felliniana era costellata: Alvaro Vitali. Del resto, come di recente dichiarato dallo stesso Vitali alla presentazione della versione restaurata de I clowns, “L’amore tra me e Fellini è iniziato con un fischio”, Fellini cercava una comparsa che fosse capace di rifare il fischio del merlo, Vitali iniziò a fischiare “alla pecorara come un pazzo” e fu subito scelto dal maestro. La corporalità del “Pierino/Vitali” fu l’ingrediente apprezzato da Fellini, la stessa fisicità grottesca che ne fece poi un divo della commedia sexy all’italiana, erede lasciva e più “scostumata” dei tanti sogni felliniani (sogni fatti di donne), che si alimentavano (nemmeno troppo nascostamente) di un voyeurismo per così dire onirico. 

Francesco Di Benedetto, in un discorso sulla contemporaneità di Fellini (Il cinema di Federico Fellini e la sua contemporaneità) scrive che in Fellini troviamo “un voyeurismo sessista sempre più spinto, veicolato e incentivato nel pubblico dall’esposizione carnale di molte icone mediali femminili a fini commerciali”, una tra tutte che vogliamo qui citare è la giunonica Anita Ekberg de Le tentazioni del Dottor Antonio, trascurata dalla critica ai tempi della sua uscita, ma assai interessante per definire il tema del voyeurismo e la sua condanna morale ai tempi del film. Condanna che a sua volta, con il corto, Fellini criticava implicitamente, dato che il protagonista Peppino De Filippo per reprimere i suoi “bassi” istinti finisce in una camicia di forza.  Potremmo considerare Le tentazioni del Dottor Antonio come semplice risposta “piccata” di Fellini alla critica che aveva attaccato La dolce vita tacciandola di immoralità, e oscenità dei costumi, oppure come un’avanguardistica installazione (il cartellone pubblicitario enorme) che porta il tema dell’ammiccamento sessuale, della sua commercializzazione in contesti pubblici (il cartellone è situato in un parco dove vanno a giocare i bambini) alle estreme conseguenze. Anche perché il manifesto pubblicitario invita ad un maggiore consumo di latte (come suggerisce lo slogan “bevete più latte, il latte fa bene), ma il messaggio come sappiamo è molto ambiguo e per questa sua ambiguità viene punito.

Ancora Di Benedetto scrive “la seduzione nel cinema di Federico si effettua seguendo ‘un ordine politico-culturale regressivo’ che esercita il proprio dominio massivo mediante un linguaggio sostanzialmente populistico che seduce […] mettendo in scena un carnevale sistemico e perenne consumato nel segno della partecipazione della massa popolare agli universi simbolici inclusivi e liberalizzanti veicolati dai media”. 

Il cinema di Fellini si nutre dunque di universi simbolici inclusivi ai quali il popolo è invitato a partecipare mediante la seduzione filmica, perché come giustamente sottolinea Giacomo Manzoli nel suo libro Da Ercole a Fantozzi - Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976): “L’atteggiamento di Fellini rispetto ai suoi personaggi è umile e non supponente, per questo arriva dritto al cuore del suo pubblico” e “si avvicina a una idea di cultura popolare assai più di quanto non facciano film in cui gli esponenti di ‘una cultura egemone’ decidono di spiegare al popolo il popolo stesso”. 

Infatti Fellini ha scelto come protagonisti del suo cinema artisti di strada, circensi, prostitute, attori di fotoromanzi, vitelloni, donne e uomini dell'avanspettacolo, ha pescato a piene mani nei "bassifondi" della società per rappresentare le vite di un intero catalogo di disgraziati, ma lo ha fatto sempre nutrito da un grande affetto per gli stessi. Ed è così che nasce di riflesso l'amore degli spettatori per Gelsomina, Zampanò, Cabiria, o per Volpina, Gradisca, la Tabaccaia, Titta e zio Teo ("Voglio una donnaaaaaaaa"). Fellini nel suo cinema ha avuto rispetto dei sottoproletari che rappresentava non li ha usati né maltrattati, "saranno anche stati disgraziati, ma non per questo dovevano necessariamente essere stupidi. E si può perfino ipotizzare che l’interesse della cinefilia contemporanea per questo tipo di oggetti nasca da un sentimento di tal genere" (Manzoli). 

Quella di Fellini è una forma di cinema “che ha le sue radici nelle condizioni sociali e materiali di determinate classi, forme e attività incorporate in tradizioni e pratiche popolari” e per ciò stesso riescono ad essere popolari e di massa, ma contemporaneamente film d’autore. L’autobiografismo o “l’amarcordismo” spesso citati come accuse di un cinema personalistico, individualista ed autoreferenziale, erano invece alcune tra le più alte testimonianze di uno spaccato social-popolare dell’Italia a cavallo di decenni di trasformazione da rurale a metropolitana, da analfabeta a scolarizzata, da contadina a industriale, da società del sacrificio a società del benessere. La Dolce Vita, il maggior successo di pubblico nella storia del cinema nostrano, fu uno spartiacque capace di riflettere il cambiamento di una società e fu visto dalla critica come “un attentato alla nazione, alla società alla morale”. 

Allo stesso modo, anni dopo, film come Il Casanova si inserivano in un contesto di ampliamento del confine del visibile in campo sessuale, partecipando inequivocabilmente a quella rivoluzione dei costumi che avrebbe indicato la strada a film (dal soggetto sempre più spiccatamente erotico) che avrebbero incontrato il favore del pubblico, sempre più appetibili per i produttori, che si ingegnarono a far vacillare il veto censorio, dietro improbabili e creativi pretesti letterari. 

Consideriamo per questo Federico Fellini il Raffaello Baldini del cinema, perché come il poeta santarcangiolese trasformò il dialetto da sotto-categoria letteraria a strumento degno di entrare nelle sacre stanze della poesia, così Fellini fu capace di usare il tono basso, l’immagine plebea, il reale popolare, come scrive di lui Giovanni Grazzini, “in un calcolatissimo impasto di toni gravi e lievi, con svolte improvvise nel beffardo e nel fumetto” riuscendo a ripulire queste immagini “di ogni scoria verista” e per farle assurgere “nel grembo della legenda”. 

E il motivo per cui fu avanguardisticamente pop a nostro avviso risiede anche nella eterna insicurezza o modestia che ebbe nel fare questa operazione, dato che, come ricorda il biografo Kezich, “l’etichetta di neodecadente non gli piace, l’accostamento al poeta Giovanni Pascoli lo rende perplesso. Credeva di aver fatto tutta un’altra cosa, molto più terra terra: un settimanale inventato, un rotocalco in pellicola”, mentre stava “semplicemente” rovesciando i canoni correnti. Fellini fu il Marcel Duchamp del nostro cinema e il suo pubblico ha codificato come ha voluto i suoi film. Ecco perché il suo fu un cinema popolare, vinse la scommessa di far dialogare la cultura con i gusti del pubblico.