Per molti anni i Tre colori di Kieslowski sono rimasti per me un mistero. Da piccolo spesso passavo in rassegna, senza riuscire quasi mai a sceglierne una, le videocassette dei miei genitori, e tra quelle dei film stranieri (accuratamente separate dalla mitica collezione dei “Capolavori italiani” dell’Unità, con la custodia in bianco e nero e i titoli in giallo) puntualmente mi fermavo a fissarne una zaffirina, che in copertina portava un volto di donna coi capelli corti, talmente chiaro che occhi narici e bocca sembravano appena appoggiati su quella pelle così bianca. Era Juliette Binoche in Film blu.
Senza neanche il bisogno di leggere il testo sul retro (che comunque da un certo punto in poi ricordavo benissimo), mi sentivo inspiegabilmente attratto da quel rettangolo di carte e plastica – ma ho il sospetto che mi interessasse più il contenitore del contenuto. Tanto che quella videocassetta, che più di tutte desideravo vedere e che infatti avrò tenuto in mano decine di volte, non è mai entrata nel lettore che fieramente accompagnava, fino a non molti anni fa, il nostro televisore a tubo catodico.
Videocassetta e televisore mi sono tornati in mente alla notizia del ritorno in sala dei Tre colori, scritti dal regista insieme a Krzyzstof Piesiewicz, che si ripresentano agli spettatori di oggi come altrettante intense interrogazioni sul sentimento, l’identità, il caso, sul rifiuto e l’accettazione del mondo e soprattutto sulle esitazioni dell’umanità: gli infinitesimi ed essenziali momenti di cui sembriamo non accorgerci e in cui è in gioco un intero destino.
Sarà la posizione mediana, in ogni caso Film Bianco resta il “colore” (la tastiera aveva inizialmente scritto “dolore”, refuso rivelatorio quant’altri mai) solitamente più trascurato quando in realtà è quello massimamente esemplare della suprema capacità di Kieslowski di dare forma e temperatura alla temporalità altrimenti invisibile delle scelte decisive e degli scambi di personalità, riconoscendo la stessa importanza ai silenzi o ai colpi di scena, alle lacrime inattese e al desiderio più flagrante.
Come la moneta da due franchi che diventa l’emblema del riscatto del protagonista, il film ha due facce indivisibili: da un lato, la caduta e l’ascesa di Karol Karol (Zbigniew Zamachowski, un attore che ha una faccia giusta per ogni situazione), parrucchiere polacco rovinato dalla moglie francese Dominique (Julie Delpy, costantemente interdetta) perché incapace di consumare il matrimonio e deciso, una volta rientrato in patria con l’aiuto di un malinconico e mefistofelico uomo d’affari, a vendicarsene, dimostrandole che la passione tra loro non si è estinta; dall’altro una specie di ironico e allarmante oratorio sulla condizione della Polonia dopo la caduta del Muro, fiore all’occhiello dell’economia neoliberale di fine millennio e discarica a cielo aperto di un continente dove, come ripetono diversi personaggi, «tutto si può comprare» e di conseguenza tutto è in vendita. Anche l’amore.
Si implicano a vicenda, infatti, il riscatto imprenditoriale e la rivincita erotica di Karol che, come un novello Cicikov, si aggira per le campagne di Varsavia alla ricerca di investimenti edilizi, in un viaggio etico e metafisico alla periferia di una nazione abitata per lo più da anime morte. È un’erranza, la sua, anzitutto attraverso un tempo di cui è stato spossessato – quando, durante l’udienza per il divorzio, il giudice gli chiede «Che cosa vuole lei esattamente?» Karol con gli occhi lucidi risponde «Ho bisogno di tempo» – e di cui riesce infine a invertire la direzione: dalla (presunta) morte verso un ritorno alla vita insieme a Dominique.
Su questo Kieslowski è limpido sin dalla prima inquadratura, che segue una valigia trasportata dal nastro di un aeroporto: quella valigia coincide col corpo di Karol – in una scena peraltro simmetrica agli incipit in movimento di Film Blu (la ruota della macchina sull’asfalto) e Film Rosso (i cavi telefonici che passano sotto il mare). Per questa e per molte altre ragioni di corrispondenza non è davvero possibile scrivere di un solo film alla volta.
Forse ciò che mi tratteneva, da ragazzo, dal guardare Film Blu era appunto il rischio dell’incompletezza. Sapevo dal titolo che si trattava di una trilogia. Avevo probabilmente intuito che i rimanenti due capitoli corrispondevano agli altri colori della bandiera francese. Purtroppo, conoscendo a memoria il resto del catalogo domestico, avevo anche capito che in casa non avrei trovato Film Bianco e Film Rosso. Quindi ho aspettato: non molti anni fa ho guardato in televisione i tre film con mia madre, nell’ordine consueto.
Tornare in questi mesi a rivederli al cinema in una versione restaurata, che ha restituito all’opera terminale di Kieslowski le smerigliature coloristiche e la concentrazione del sonoro originale, significa veramente ritrovare intatte la bellezza quasi soprannaturale e l’emozione eterea che si potevano vagamente percepire dalla custodia di una videocassetta venti o trent’anni fa. Anche perché al centro di ciascuno dei tre pannelli resiste ancora il linguaggio sfumato di una memoria ‘sottile’ o piuttosto ‘assottigliata’, proprio come quella che ho tentato di evocare all’inizio: un grumo di ricordi fragili e sfuggenti, cui i protagonisti non riescono a fare a meno di sorreggersi per non sprofondare nella disperazione (Blu), nell’accanimento (Bianco) o nel disprezzo (Rosso), e di cui tuttavia devono ammettere la progressiva evanescenza di fronte alla vita presente, che sempre esige di ricominciare lì dove, un attimo prima, si era interrotta (lo suggeriva già La doppia vita di Veronica).
Il cinema di Kieslowski è a vari livelli un’arte del fading – esistenziale, sensitivo, temporale, gnostico – che in questo caso, passando dal blu al bianco al rosso e viceversa (indimenticabile il finale dell’ultimo film, in cui si ritrovano a sorpresa i personaggi principali degli altri due), si concretizza in un esercizio del ‘trascolorare’: verbo anzitutto dantesco, e si sa che solo la morte prematura impedì al regista polacco di dirigere una seconda trilogia basata sulla Commedia. Chissà che splendide videocassette sarebbero venute fuori.