Nel secondo dopoguerra il cinema italiano conosce una fortuna senza precedenti, che non riguarda solo le qualità estetiche dei film, ma anche la competitività a livello produttivo sulla scena internazionale. Sono gli anni delle runaway productions, produzioni hollywoodiane realizzate all’estero, che vedono in Italia uno dei poli più attrattivi. Alla base di questo fenomeno ci sono degli accordi che prevedono che la metà degli introiti conseguiti in Italia dagli studios di Hollywood debbano essere reinvestiti in Italia. E quindi ecco che grandi kolossal americani cominciano ad essere girati negli studi di Cinecittà, significativamente rinominata la “Hollywood sul Tevere”.

Questa contestualizzazione storica è utile per comprendere appieno cosa racconta Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. La storia, infatti, è ambientata in un momento in cui la fascinazione per il cinema americano si sposava totalmente con l’adorazione per Cinecittà, quella macchina mediale che prometteva a tutti la possibilità di diventare una stella, come raccontato con drammatico realismo da Luchino Visconti in Bellissima (1951).

Finalmente l’alba, soprattutto all’inizio, sembra dialogare proprio con Bellissima: anche qui abbiamo una madre che vorrebbe vedere sua figlia entrare nel mondo dello spettacolo, ma, a differenza della pellicola di Visconti, questo è solo lo spunto iniziale per parlare di altro. Tuttavia questa prima parte sembra essere la più ispirata, quella dove Costanzo riesce a dipingere al meglio l’Italia del dopoguerra, portando avanti l’affresco storico iniziato già con L’amica geniale (Rai 1/HBO, 2018 -).

Bastano pochi elementi per farci entrare nella vita della famiglia della protagonista Mimosa (Rebecca Antonaci), attraverso la quale il mondo dello spettacolo viene da subito rappresentato come qualcosa di lontano, irraggiungibile, tanto ambito quanto temuto. Questa prima parte avrà una risposta nella seconda, quando le illusioni verranno infrante e Mimosa si ritroverà ad affrontare l’ipocrisia e le invidie che animano le celebrità che ha sempre ammirato sullo schermo.

La scoperta che piano piano si fa evidente guardando Finalmente l’alba è che tutto rimane sempre in superficie, trasformando un film potenzialmente interessante in una serie di momenti che si limitano ad elencare fatti, senza trasmettere mai veramente quella magia che invece le parole dei personaggi cercano di evocare.

Allo stesso modo la presenza di star americane tra i protagonisti (Lily James, Willem Dafoe e Joe Keery) non trova mai una vera giustificazione: non conosciamo e non conosceremo mai veramente quei personaggi, anche nel momento in cui il film cerca di decostruirli essi continuano ad essere le celebrità imperscrutabili e irraggiungibili dell’inizio.

Questa superficialità fa sì che di Finalmente l’alba resti l’idea di un film tutto sommato banale, che nel suo voler raccontare lo scarto tra l’illusione del mondo dello spettacolo e i suoi reali lati oscuri non dice niente di nuovo. Più di ogni altra cosa, però, il nuovo film di Costanzo ha il sapore di un’occasione sprecata: se la scrittura è superficiale, tutto il contrario si può dire della messa in scena, dei costumi e della ricostruzione storica.

L’imponente budget (29 milioni di euro) consente di dare vita ad una Roma degli anni Cinquanta che, anche grazie all’ottima fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, eleva notevolmente i valori produttivi del film. Le scene ambientate a Cinecittà danno alla pellicola un’aria da kolossal internazionale, in grado di competere con le produzioni straniere, in un momento storico in cui il cinema italiano cerca di reinventarsi per poter circolare all’estero con sempre maggiore fortuna.

La poca considerazione ottenuta alla Mostra di Venezia, tuttavia, non stupisce: anche qui Finalmente l’alba resta sulla superficie, non sfruttando mai davvero ciò che la sua potenza visiva consentirebbe, relegando la meraviglia esclusivamente alle scenografie e ai costumi e mai alle vicende e ai personaggi.