Non c’è la musica degli Alphaville – sebbene una loro canzone presti il titolo al film – o la moda in technicolor a far proiettare lo spettatore nella Nanterre degli anni Ottanta, ma l’ombra dell’AIDS e un annuncio radiofonico che segnala l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl. La più recente opera della regista Valeria Bruni Tedeschi è innanzitutto reale: non c’è un rimando macchiettistico all’epoca in cui la storia è ambientata, la vicenda cinematografica si cala in modo del tutto verisimile all’interno della dimensione teatrale del veramente esistito Patrice Chéreau e della scuola attoriale Des Amandiers di Nanterre, dove la regista ha studiato sotto la guida di Pierre Romans.

Forever Young si sviluppa come racconto corale che intreccia la passione per la recitazione a quella romantica, dove l’amore è però restituito come un atto puramente carnale o ossessivo. Pur essendo un testo a più voci, a farsi sentire maggiormente è quella di Stella (Nadia Tereszkiewic), la cui performance – sia sul palco che “in scena” – incanala l’emotività di dodici persone travolte dalla tossicodipendenza, anche affettiva.

Bruni Tedeschi, insieme a Noémie Lvovky e Agnès de Sacy, scrive una storia sull’ingenuità e intensità del romanticismo giovanile, che travalica i confini della coppia e si riversa sul mondo che circonda questi studenti sfociando nello stravolgimento dell’io. La Tereszkiewic è quindi "folle d’amore" nel suo rapporto con Sofiane Bennacer, qui nel ruolo di Étienne; nel tentativo di non idealizzare la relazione fra i due, perché la co-dipendenza sentimentale non può essere vissuta con lo spirito “noi contro il mondo”, è necessario evidenziare la violenza che intercorre tra i due personaggi e ricordare, anche se questa non è la sede più appropriata per parlarne, le accuse di abuso fisico e psicologico che Bennacer ha ricevuto da tre ex-compagne.

Esposto e messo da parte lo scandalo, lo spettatore non può che ritrovarsi pienamente coinvolto nella vita di Victor, Adèle, Franck, Camille, Succede grazie a uno sguardo registico tanto intimista quanto non giudicante e soprattutto per merito di una scrittura e di una recitazione la cui complessità emotiva favorisce l’empatia tra pubblico e personaggi, generando un trasporto estremamente personale e al limite del piano fisico.