Quando il film venne presentato al Festival di Cannes nel 1997, più di metà del pubblico uscì dalla sala prima di aver concluso la visione. Funny Games di Michael Haneke - sia nella sua versione originale austriaca che nel remake statunitense realizzato dallo stesso regista dieci anni dopo - è un’opera cruda, psicologicamente devastante, che non lascia spazio all’immaginazione. Anna, Georg e il loro bambino sono appena giunti alla casa delle vacanze, quando due ragazzi si presentano alla porta, muniti di guanti e spietatezza…

Si tratta di un film al di là del classico horror genere home invasion, sia per le dinamiche narrative che lo allontanano da questa tipologia che per le intuizioni registiche attraverso cui Haneke fa trapelare una forte critica sociale nei confronti dei media e, soprattutto, della fruizione di scene truculente tramite la televisione. Funny Games nasce con l’obiettivo di smuovere le coscienze sui contenuti violenti assorbiti ogni giorno dagli spettatori e di come questa continua esposizione alla ferocia umana alteri la percezione che si ha della crudeltà: il pubblico si appassiona alla malvagità fino a diventare una sorta di carnefice voyeuristico.

Il messaggio del film è veicolato dai momenti di rottura della quarta, in cui Paul (uno dei boia) rompe la quarta parete per richiamare all’ordine lo spettatore - o, per meglio dire, per richiamare all’ordine la coscienza dello spettatore che con la brama di conoscere il destino della malcapitata famiglia, non stacca gli occhi dallo schermo grondante sangue. Inoltre, mentre Peter (l’altro giovane torturatore) guarda la tv, lo zapping compulsivo sottolinea la totale mancanza di attenzione ed empatia rispetto ciò che si sta osservando; concetto poi reiterato dalla televisione rimasta accesa a tutto volume dopo la prima uccisione di un membro della famiglia.

La scena più iconica del film, che evidenzia il distacco emotivo e cognitivo dei due aguzzini rispetto la realtà e il malessere altrui, è il rewind tramite il telecomando di un omicidio che avviene non in televisione, durante lo zapping di Peter, bensì proprio tra le mura della casa.

A distanza di venticinque anni dall’uscita italiana del film, soprattutto dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, si è tanto discusso della “pornografia del dolore” che avviene in TV o che si legge sui giornali: la spettacolarizzazione della sofferenza di chi ha vissuto la morte di un proprio caro, la descrizione maniacale della scena del crimine e dei momenti di violenza, l’ossessiva descrizione della vita delle persone coinvolte, prima e dopo la tragedia.

Funny Games quindi, nonostante la televisione a tubo catodico e il telefono cellulare con antenna esterna, risulta estremamente contemporaneo nell'evidenziare il distacco emotivo che lo spettatore, saturo di crudeltà, prova nei confronti della sofferenza altrui che sembra, poiché trasmessa mediaticamente. È forse il caso di riprendere la discussione sul confine tra realtà e finzione che Paul e Peter intrattengono sul finale dell’opera di Haneke?