Di Jean Gabin l’aspetto forse più evidente è la corporatura: figura niente affatto snella, massiccio e dai lineamenti marcati, Gabin irrompe, o meglio, prorompe sulla scena come un fuoco, un’esplosione di energia e naturalezza vivide. E non per caso introducendo la proiezione di Il commissario Maigret di Jean Delannoy, Tavernier ne ha connotato l’espressività, quella capacità di modellarsi davanti alla macchina da presa a seconda che le circostanze lo richiedano o meno, tanto più quando viene ripreso di schiena, come ha sottolineato il regista. La gestica di Gabin si dispiega quindi attraverso eclettismo e duttilità: pensiamo al volto che si deforma di continuo durante l’interrogatorio nel film di Delannoy o alla distensione assoluta dopo aver risolto il caso, accogliendo lo scrosciare della pioggia come sigillo di un’agnizione tanto attesa. Tra Renoir, Duvivier, Carné e tanti altri, sempre lo stesso, sempre uguale, sempre qualcuno, citando Prévert, Jean Gabin ha incarnato una vastissima gamma di emozioni e sentimenti e Il commissario Maigret ne rappresenta la raggiunta e completa maturità artistica, per un verso.

Nell’altro verso c’è un film, contemporaneo a Maigret, piuttosto sfortunato e caduto in disgrazia per un suo voler “osare”, potremmo dire, collocandosi al di là di certi parametri morali, di convenzioni e prassi da adottare nella rappresentazione di personaggi maschili e femminili, da cui lo stesso Gabin, ricordiamolo, fu scandalizzato. Si tratta di La ragazza del peccato di Claude Autant-Lara, a nostro avviso invece splendido, di una sensualità e forza destabilizzanti. Ad acuirla c’è poi la presenza di Brigitte Bardot. La storia è poco nota: la bella Yvette Maudet deruba e tramortisce la moglie di un gioielliere e André Gobillot accetta di difenderla. I due si innamorano anche se fino alla fine non c’è dato conoscere l’entità né l’anima di questa relazione elusoria, morbosa, di bisogni e amori venefici (quasi dieci anni dopo Truffaut avrebbe girato La mia droga si chiama Julie). Non si capisce se Gobillot voglia esserle padre, fratello, amante, o tutti e tre, allo stesso modo in cui delle intenzioni e dei desideri di Yvette si riesce a cogliere soltanto la superficie, lei al solito senza tetto né legge, come si vede anche in La verità di Clouzot, del 1961. E Gabin è totalmente preda di questo fascino femminile di Lolita, mostrandosi fragilissimo. In questo senso, La ragazza del peccato vuole continuare l’opera di denuncia ai valori borghesi iniziata negli anni ’40 e lo fa costellando alcune sequenze di allusioni, guardando alla sensualità dei dettagli e dei corpi. Mozzafiato la scena in cui Gobillot, Yvette e la cameriera si riuniscono a bere, sospesa in un’aura di erotismo sotteso e aereo.

Ma è sulla fisionomia della Bardot che Lara costruisce la sua denuncia: a un certo punto solleva svelta la gonna e propone senza mezzi termini un contratto a Gabin, nel cui gesto, cinico, c’è una specie di candore disarmante. Fresca, sana, placidamente sensuale. Non getta sortilegi, anzi agisce, mettendo sotto scacco un uomo e poi tutta una cultura, come sosteneva Simone de Beauvoir, in un saggio dedicato all’attrice francese e alla percezione della donna\diva da parte della cultura patriarcale francese degli anni ’60: “La Bardot è terrena. È ciò che è. Ha una sua realtà propria. È un intoppo tanto per le fantasie licenziose quanto per i sogni eterei. La maggior parte dei francesi ama alternare i voli mistici con la volgarità e viceversa. Con B.B è fatica sprecata. Li incastra e li costringe a essere onesti con loro stessi, ad ammettere la crudezza del proprio desiderio, il cui oggetto è molto preciso: quel corpo, quelle cosce, quelle natiche, quel senso. La maggior parte della gente non ha il coraggio di limitare la sessualità a quello che è e di ammetterne il potere.”