Per ricordare George A. Romero - non solo un grande regista di genere, ma uno dei più innovativi autori del cinema americano moderno - pubblichiamo un estratto dal volume curato da Claudio Bartolini, George A. Romero. Appunti sull'autore (Bietti, 2016). Nel libro, la postfazione è stata affidata a Roy Menarini, incaricato di ricordare alcuni aspetti stilistici e simbolici del regista, troppo spesso poco indagati a causa della forza iconografica del suo approccio horror. 

"Ciò che spesso è stato sottovalutato di George A. Romero è la sua qualità di cineasta. È come se la forza delle sue figure narrative e iconografiche, la potenza simbolica degli zombi e dei tropi immaginari, avesse paradossalmente attutito nei suoi stessi analisti l’attenzione verso lo stile e la messinscena.

Ebbene, Romero è uno dei grandi cineasti americani del dopoguerra, e può tranquillamente essere considerato un frutto coerente della cosiddetta Hollywood Renaissance anni Sessanta/Settanta. La notte dei morti viventi, per esempio, è un modello di precisione di regia e utilizzo magistrale degli spazi cinematografici in un contesto di orgogliosa indipendenza produttiva. Andrebbe studiato dai giovani registi desiderosi di farsi selezionare al Sundance, magari imbevuti di minimalismo privo di costrutto.

Quel primo successo si è probabilmente costituito come base del futuro cinema romeriano, che ha spesso operato in controtendenza stilistica rispetto alla densità iconica. Più le sue storie erano impressionanti e sanguinose, più la regia di Romero si faceva anti-spettacolare e funzionale. In una sorta di diagnosi differenziale del suo cinema, potremmo proficuamente confrontarlo proprio con il frutto più evidente della mitologia degli zombi cui ha dato per primo piena cittadinanza artistica: The Walking Dead. Nella serie – ormai saldamente nelle mani di Greg Nicotero – la bontà del make-up e la concretezza del trucco orrorifico, unita a una dose nascosta di computer graphic, non sembrano sorrette da una forte idea di messa in scena. E, sebbene non manchino scelte molto riuscite di montaggio, narrazione e regia, il problema è che la dimensione fumettistica di Kirkman rimane a metà del guado, non abbracciata in pieno né trasformata in forza cinematica. Se invece guardiamo i film sugli zombi di Romero (escluso l’esperimento, pur interessante, di Diary of the Dead), scopriamo una precisione organizzativa dello spazio – soprattutto – e del tempo di rara intensità.

Romero, almeno nel periodo centrale e più applaudito della sua carriera, non ama muovere la macchina da presa. Utilizza inquadrature brevi e fisse, poi lavora a un montaggio serrato. Questa idea di lasciare il proscenio alla traumaticità di ciò che vediamo ne fa un paradossale esempio di trasparenza di regia, che rende questa scelta del tutto solidale con la pan-visibilità dell’orrore e delle viscere che hanno rappresentato il suo marchio di fabbrica (oltre che, naturalmente, l’innalzamento dell’asticella cui tutti, in seguito, si sono dovuti adeguare). Il film-chiave in questo senso è La città verrà distrutta all’alba, dove gli elementi della paranoia settantesca e dell’apocalismo letterario statunitense, vengono messi in scena attraverso un apparato di regia che definiremmo clinico, una sorta di sintassi marziale e implacabile fatta quasi esclusivamente di inquadrature fisse e depurate.

Il più volte elogiato realismo grafico, compreso quello degli ambienti urbani e sociali, ne è conseguenza, non causa. Se Martin/Vampyr a tratti può apparire un documentario su Pittsburgh è perché Romero lavora sulla credibilità e sulla precisione antropologica, più che sull’immaginario e sui tratti più antirealisti del cinema horror, la cui tradizione pare interessargli davvero poc. Ed è forse questo il motivo per cui l’incontro tra due artisti che si stavano simpatici, Romero e Dario Argento, era destinato inevitabilmente a dare frutti incongrui: materico e hardcore Romero, operatico e manierista Argento.

Certo, da Monkey Shines in poi, anche per Romero le cose cambiano, ma del resto dalla seconda parte degli anni Ottanta tutti i registi, nessuno escluso, cominciano a negoziare la propria identità visiva in una difficile trattativa estetica tra le ragioni per cui sono divenuti celebri e le politiche produttive del contemporaneo. E così, sono proprio gli zombi e la loro saga ad essere sottoposti alle continue reinvenzioni di sé stesso da parte di Romero, come dimostrano il già citato caso estremo di Diary of the Dead ma anche gli stilemi improvvisamente barocchi e noir di La terra dei morti viventi.

L’avventura di Romero nel cinema, insomma, è una piccola storia dello stile nell’horror moderno, di ricollocazione – talvolta prodigiosa – del fantastico su grande schermo. La recente riproposizione in sala di Nosferatu e Caligari restaurati, d’altra parte, ha fatto pensare a chi scrive che oggi, a nuovo secolo ampiamente in corso, anche i film di Romero si sono storicizzati. L’invenzione di forme cinematografiche da parte di Murnau e Wiene, lungi dal potersi esaurire nel contesto dell’Espressionismo, appaiono oggi tappe di un catalogo dell’occulto e del soprannaturale di cui Romero è parte integrante, essenziale e apicale. Il deambulare di Cesare e le ombre di Dracula non sono ai nostri occhi più decisive dell’incedere lento e ottuso dello zombi in versione romeriana.

Con George A. Romero siamo insomma nel pieno della storia delle arti visive e delle raffigurazioni del perturbante, che da Goya giunge a Tod Browning, da Romero a Matthew Barney, dal Grand Guignol di André de Lorde a Jodorowsky e Rob Zombie, e così via, scolpiti nell’archivio vivente del macabro rappresentato.