Quando gli autori di un film ci dicono troppe volte che le vicende narrate non si riferiscono a fatti realmente accaduti o che i personaggi non sono da confondere con persone veramente esistite, diventiamo subito sospettosi e abbiamo voglia di indagare. Nel caso di Georgetown il disclaimer è addirittura doppio, all’inizio e alla fine del film, rispettivamente prima e dopo una scena di onori militari che ci sembra subito improbabile, quasi una citazione cinematografica da Lawrence d’Arabia. Realtà e narrazione cinematografica si confondono volutamente. Esordio alla regia di Christoph Waltz, che, interpretando anche il protagonista maschile Ulrich Mott, aggiunge un’ulteriore caratterizzazione alla sua galleria di inquietanti seduttori, il film ricrea fedelmente la vicenda, prima sentimentale e poi processuale, di Albrecht Muth e Viola Herms Drath.
Ulrich Mott è uno stagista al Congresso che insegue il sogno americano della mobilità sociale, affascinato dal mondo della diplomazia e della politica internazionale. L’occasione di accedere a questo mondo gli viene offerta dalla benestante vedova Elsa Brecht (Vanessa Redgrave), affermata giornalista di affari esteri, che cede, non senza destare lo stupore degli amici, al corteggiamento di Mott, di quarant’anni più giovane di lei. Unita dal gusto della politica e del potere, la coppia si inventa una ONG nel cui direttivo compaiono nomi del calibro del magnate George Soros, dell’ex ministro alla difesa di Kennedy, Robert McNamara, e dell’ex primo ministro francese, Michel Rocard. Ma Mott è destinato ad un brusco risveglio dal suo sogno americano quando diventa il sospettato numero uno in seguito al ritrovamento del cadavere della moglie dopo una delle loro raffinate cene per politici e diplomatici nel quartiere alla moda di Georgetown.
Sapientemente montato attraverso una serie di flashback che mantengono viva l’attenzione e la suspense, Georgetown abbraccia diversi generi: ricostruzione di caso di cronaca, giallo, dramma processuale, ma anche commedia di costume per l’analisi delle convenzioni sociali, degli ingranaggi del potere e del loro impatto sull’identità degli individui. In questa camaleontica commistione di generi, il film rispecchia l’instabile identità politica e sessuale del protagonista del maschile, sempre alla ricerca della propria (re)invenzione come diplomatico sulla scena internazionale e come omosessuale, nonostante il suo matrimonio. Anche se questa molteplicità di generi implica necessariamente che alcune parti siano meno sviluppate di quanto meriterebbero, come, ad esempio, la parte processuale, questo libero uso di diverse convenzioni permette anche di introdurre originali varianti a formule collaudate.
La più interessante è certamente quella di rendere instabili i ruoli di vittima e carnefice, sedotta e seduttore, innestandovi il tema del doppio. Infatti, grazie anche alla volitiva e sfaccettata interpretazione di Vanessa Redgrave, non è possibile considerare Elsa semplicemente come vittima indifesa. La donna è affascinata quanto Mott dal potere e lo incoraggia a sfruttare le sue conoscenze e il suo circolo di amici influenti per farsi strada nel mondo della diplomazia. Compiaciuta, gli indica le persone da avvicinare agli eventi sociali, ne osserva e giudica a distanza il comportamento. Si lascia volutamente ammaliare dalle narrazioni (fanta)politiche di Mott, con cui, oltretutto, condivide lo status di immigrato che vuole affermarsi nella società americana. La domanda che Georgetown sollecita nella mente dello spettatore non è semplicemente chi sia il colpevole, ma anche fino a che punto Elsa sia una vittima o una consapevole manipolatrice.