Alessandro Comodin è friulano, ha vissuto e studiato prima a Bologna, poi a Parigi e infine a Bruxelles. Eppure Gigi la Legge, il suo terzo lungometraggio dopo L’estate di Giacomo e I tempi felici verranno presto, è uno dei film più meridionali che si possano rintracciare nel cinema italiano del presente. Non è solo una connotazione geografica o produttiva, ma l’attestato di un respiro più profondo del suo raggio d’azione effettivo. D’altronde la provincia è uno stato d’animo, difficile da spiegare se non la si osserva in prima persona.
Si potrebbe definire come appartenente a un cinema della controra, quel misterioso lasso di tempo dei paesi che conoscono temperature brucianti in cui è molto probabile sia nato il realismo magico. Platone la descrive come l’ora immota, in cui la luce è più calda, mette in risalto i colori della natura fino a scioglierli con una potenza inarrestabile. Ottenebra la parte razionale dell’uomo, facendogli smarrire il tempo e gettandolo in pasto alla durata bergsoniana. É l’ora dei demoni, secondo la saggezza popolare, in cui è meglio rimanere in casa per evitare di incrociarli e rimanere irretiti. Il ritorno all’ordine avviene soltanto quando i raggi del sole allentano la presa sulla terra stordita.
Pier Luigi Mecchia invece è in continuo movimento, immerso in un Friuli a tratti tropicale fatto di giardini incantati e territori arsi dalla calura estiva. Lo fa certamente per professione, visto che il suo ruolo di vigile urbano prevede il pattugliamento dell’area cittadina per prevenzione e sicurezza. La sua ricerca, però, ha anche i contorni di una quest mistica compiuta da un cavaliere errante con un obiettivo difficile da stabilire. Non ci sono prove da affrontare o mostri da sconfiggere, ma vuoti da riempire con il proprio passaggio.
Il contesto si rianima quando viene scosso dalle traiettorie gentili di Gigi al suo interno. Se stessimo parlando di un film classico, l’attivazione di porzioni di realtà sarebbe indicata da tagli di montaggio e interventi sonori per il tempo necessario al regista di portare la storia al livello successivo. Comodin invece include il tempo morto, scegliendo piani-sequenza capaci di restituire l’interezza delle azioni minime che si svolgono nell’enormità della provincia. Si tratta di momenti non necessariamente utilitaristici, pezzi di una collezione di eventi schiavi delle unità aristoteliche, che suggeriscono come la vita presa in prestito dalla camera precede e resiste alla delimitazione di Gigi la Legge.
La leggerezza del girovagare in questo tempo sospeso ma reale rivela molto più di quello che fa concretamente vedere. Si perdono i personaggi, si allentano i confini della finzione e avviene un’osmosi tra cinema e realtà che con il passare dei minuti ipnotizza lo sguardo di chi ha bisogno di arrivare necessariamente ad una fine.
Gigi la Legge termina soltanto per cause di forza maggiore, perché un Gigi continuerà a pattugliare la sua area di competenza anche laddove sembra non essercene alcun bisogno.