Più volte il cinema si è interessato alle opere di Giorgio Morandi, le sue nature morte compaiono in alcune pellicole a testimoniare il gusto di un’epoca, pezzi pregiati all’interno di collezioni d’arte dall’inestimabile valore come in Un bacio e una pistola di Robert Aldrich (1955), forse la prima fuggevole traccia cinematografica dell’artista bolognese, fino al recente Io sono l‘amore di Luca Guadagnino (2009). La pittura di Morandi emerge dallo sfondo quando diventa elemento portante della narrazione, non solo status symbol di una classe agiata ma squarcio tangibile nella parete. Soffermandosi sul silenzio di questi oggetti “immersi in una luce di sogno”, Marcello (Mastroianni) ne La dolce vita (1960) è guidato dallo sguardo rapito di Steiner (Alain Cuny), sopraffatto dal dipinto “in cui niente accade per caso”. La concretezza degli oggetti quotidiani, dipinti con precisione e rigore, induce alla contemplazione della realtà interiorizzata dall’artista ed estrinsecata mediante una meditata astrazione, questi “romance sans paroles”, così definiti da Cesare Brandi,  sono “un esempio più alto di pittura intesa come pura effusione lirica”. (Cesare Brandi, Scritti d’arte, a cura di Vittorio Rubiu Brandi, 2013)

L’oggetto rappresentato si carica di significati, Antonio Costa, riporta la definizione di Michel Maffesoli a proposito dell’interazione reciproca creatasi tra attore e oggetto, quest’ultimo risulta essere un “concentrato del mondo”, la cui funzione omeopatica ci abitua all’estraneità della natura; “l’oggetto così inteso, nel quale si coagulano significati simbolici e valori plastici, si colloca oltre la dicotomia tra materiale e spirituale, tra esterno e interno, tra natura e cultura” . (Antonio Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock, Il senso delle cose nei film, 2014)

L’oggetto quotidiano, rassicurante e al tempo stesso misterioso, così epifanizzato dall’artista che vi si riconosce stabilendo con esso un’intensa relazione, funge da emblema di una società che nell’oggetto banale si rispecchia. “Amo le cose reali, il loro aspetto rassicurante”, scrive nelle sue lettere Van Gogh, “nel dipingere oggetti neutri, egli si radica nella solidità di ciò che ʻsta quiʼ, che esiste, innegabilmente. (…) Ma questa passione per l’ʻoggettualeʼ è fondata sulla cura per l’altro. Perché egli percepisce l’essere umano come separato da lui eppure come un ʻaltro se stessoʼ, ovvero perché percepisce il mondo insieme ad altri come ‘comune sommersione’”. (Michel Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze, Per un’etica dell’estetica, 1993)

Questa “comune sommersione” evocata da Steiner viene riproposta da Antonioni ne La notte (1961) con un’altra opera di Morandi, posta ancora una volta alle spalle di Mastroianni, non è un caso che la natura morta sia più spoglia, il triangolo amoroso è qui rappresentato da tre oggetti al centro della tela; anche la presenza del cenacolo di intellettuali che si riunisce nel salotto della famiglia Steiner viene suggerita dalla composizione, il vaso di piccole dimensioni e l’ampolla al suo fianco sembrano essere un riferimento esplicito ai figli di Steiner.

La dolce vita fa conoscere Morandi al grande pubblico ma sembra che il pittore non ricambi questa attenzione mediatica, non ama il cinema e men che meno i registi, rifiuta di farsi riprendere nel suo studio, troppi fili in giro per la stanza e l’idea di dover vedere i suoi dipinti ingigantiti su uno schermo non lo esalta, ma il corteggiamento cinematografico prosegue… Vittorio De Sica, interessato a un suo quadro, porta un mazzo di rose rosse al pittore, Luciano De Vita, allievo di Morandi, ironizza sostenendo che l’opera era stata promessa a Cesare Zavattini e che De Sica la rivendette sicuramente perché perdeva tutto al gioco, fatto sta che un Morandi compare ne Il boom (1963), il film è sceneggiato da Zavattini, in un qualche modo si saranno accordati! Nella scena in cui appare la tela in questione (è una mia ipotesi) il protagonista, interpretato da Alberto Sordi, trovatosi in gravi difficoltà economiche decide di vendere un occhio a un ricco costruttore che lo ha perduto in un incidente, la natura morta è appesa nello studio oculistico, “l’oggetto come concentrato del mondo” viene momentaneamente messo da parte, la composizione serve a convincere il malcapitato che nonostante la perdita di un occhio continuerà lo stesso a vedere una bottiglia nella sua interezza. L’opera di Morandi si scrolla di dosso l’aura misteriosa e atemporale, un semplice raggruppamento di bottiglie fa capolino fra la tappezzeria alle pareti.

L’attenzione di De Sica sembra essere ricambiata da Morandi, Renzo Renzi, nel libro La città di Morandi (1989) riporta un commento positivo dell’artista, certamente un’anomalia visto il poco interesse suscitato dal cinema: “Quel De Sica! È un bravo regista. Io non vado quasi mai al cinema. Ho visto Ladri di biciclette. Eh, sì, è davvero un bravo regista”. Gli omaggi cinematografici all’opera di Morandi, più o meno espliciti, sono svariati, in Capricci di Carmelo Bene (1969) un pittore nel suo atelier sistema alcune bottiglie all’interno di una cornice appoggiata su un mobile, la composizione è ancora in fase di lavorazione, gli oggetti vengono ridipinti in cerca della tonalità giusta, sullo sfondo un modello in carne e ossa posa per un crocifisso. I riferimenti all’arte contemporanea sono numerosi, De Chirico, Dalí, Schifano; la concretezza degli oggetti e dei dipinti accatastati domina ogni angolo dello studio, una presenza soffocante che scatena un combattimento all’ultima tela.

La contemplazione di questi oggetti “immersi in una luce di sogno” può celare un tormento latente e inesprimibile, a conferma di ciò l’amore di Steiner per Morandi. La fissità delle nature morte affascina, queste bottiglie, brocche e coppe ordinate secondo il gusto dell’autore sono immerse in un’apparente quiete, oggetti quotidiani rassicuranti, anch’essi modelli, attori di un tableau vivant, un “concentrato del mondo” nel quale rispecchiarsi. Cosa succederebbe se compissimo un salto oltre la cornice, profanando l’equilibrio compositivo della tela? Carmelo Bene la viola sfondandola con forza in un brutale corpo a corpo, Virgilio Villoresi al contrario entra in punta di piedi nell’habitat pittorico. Il bianco e nero avvolge gli oggetti e il corpo del protagonista che percorre in lungo e in largo le superfici presenti in J (2009), titolo dell’animazione in stop motion dell’artista e regista toscano. Potremmo dire che ci troviamo in uno degli scatti di Gianni Berengo Gardin realizzati nello studio di Morandi, le fotografie, quasi private dei toni grigi, mostrano ora un netto contrasto, un universo optical, in cui riconosciamo gli oggetti morandiani. Lo spazio interno al dipinto, percorso da una sfera bicolore (un riferimento al simbolo del tao) è il teatro dello scontro, il protagonista osserva inerme lo sdoppiamento del proprio corpo, forze opposte invadono l’ambiente condizionandone l’illusoria armonia.

Concluderei la lunga carrellata di citazioni morandiane con le parole di Valerio Zurlini, amico di Morandi e suo collezionista, il loro incontro ebbe luogo il giorno della liberazione di Bologna, il regista si presentò al numero 36 di via Fondazza, in uniforme straniera, con una lunga barba e “carico di armi e bombe come un sinistro albero di Natale”: “Quello fu il primo di una lunga serie di incontri che stabilirono fra noi una consuetudine discreta e affettuosa”. Sulla sua pittura Zurlini ha scritto pagine sentite e affettuose, il nome di Morandi, ricorda, “era segreto, imbarazzante, talvolta ironizzato, tanto il suo lento e immutabile cammino contrastava con gli ideali del tempo. (…) Il regime, con i suoi continui richiami  ad una romanità di cartapesta (…) aveva imposto alla nostra naturale creatività, al tempo stesso religiosa e pagana, tutto un paludamento di toghe che potevano essere uscite solo da una sartoria di Cinecittà. (…) Giorgio Morandi. Lo conoscevano poco. Nato e sempre vissuto al centro di una regione forte, coraggiosa, violenta, instabile nell’amore come nell’odio, Morandi continuava ad opporre agli umori facinorosi dei nuovi italiani la sobria e severa educazione degli antichi italiani, eredi di una millenaria tradizione contadina formatasi nella non superficiale tolleranza, nella disciplina, nel rispetto per la vita e nella serena accettazione della morte. Ma il contenutismo imperante del tempo pigliava tutto alla lettera, e quindi cos’era questo monotono e quasi ossessivo ripetersi di motivi apparentemente tanto dimessi e rinunciatari? Il mondo di un asceta della cucina? I ricordi adolescenziali di un’età piccolo borghese e provinciale? Gozzano o Corazzini, nella più benevola delle ipotesi? (…) Nel frattempo Morandi continuava a lavorare, imperterrito e al di sopra di ogni mischia. I suoi paesaggi di Bologna o di Grizzana, la sporca e caliginosa neve urbana, la malinconia del primo inverno, la silenziosa afa estiva, i suoi oggetti immutabili avevano ancora fisionomie riconoscibili, ma si allontanavano sempre più dalla loro geografia reale, dalla loro essenza fisica, per guadagnare con pena e incrollabile certezza il tempo assoluto dello spirito, il segreto e spoglio ritmo della contemplazione e della fantasia. (…) Continuava a lavorare con impercettibili variazioni sullo stesso tema, in un aristocratico concerto da camera che toccava altezze raramente raggiunte. (…) Il suo lavoro era diventato l’esame di coscienza di un’arte italiana intesa nella sua maniera più nobile e intransigente. Tutti hanno riconosciuto nei cieli spenti e afosi dei suoi paesaggi l’azzurro immobile dei grandi secoli. E nei poveri oggetti della sua pittura il difficile cammino che conduce, oltre la banale fisionomia degli oggetti, alla purezza della forma e del colore. E forse oltre, se la morte non lo avesse prematuramente fermato”. (Valerio Zurlini, Il tempo di Morandi, Reggio Emilia, 1975)