Non è difficile trovare, nel cinema italiano degli anni Cinquanta, tra produzioni picaresche ed inaspettati prestiti dall’estero, scelte di casting particolarmente ardite che spesso funzionano proprio in virtù della loro assurdità. Al contempo non sono rare neppure certe fortunate deviazioni: è il caso di Giorni d’amore, che in un primo momento prevedeva come protagonisti Gérard Philipe e Silvana Mangano. Se si stenta a credere allo sfortunato ed elegante divo francese nel ruolo di un contadino ciociaro, occorreva altresì un grande sforzo per accettare la splendida star di Anna come vispa campagnola poco più che adolescente.

La storia è andata diversamente e non si riesce ad immaginare una coppia diversa da quella formata da Marcello Mastroianni (accreditato Mastrojanni) e Marina Vlady, credibili nonostante i quattordici anni di differenza. Rendiamo onore all’intuito divistico di Giuseppe De Santis: qui non solo lancia la carriera di Vlady, così intelligente da non ripetere una parte nella quale è molto attendibile, ma concede a Mastroianni una delle prime occasioni da protagonista, nello stesso anno di Peccato che sia una canaglia e Cronache di poveri amanti.

Premiato col Nastro d’Argento, l’attore recupera le radici ciociare per tratteggiare un personaggio genuino, attaccato alla terra, ossessionato dai calcoli, con la corona d’aglio attorno al collo. Assieme a Vlady dialoga con la coppia di Due soldi di speranza, le cui affinità ambientali hanno forse finito per sottovalutare il film di De Santis come semplice espressione di un filone agreste tipico di un cinema sospeso tra i fermenti del dopoguerra e l’incipiente boom.

Miniatura fiammeggiante, Giorni d’amore è puro De Santis, approdo forse imprevedibile negli inediti toni brillanti ma che si riallaccia alla dimensione contadina di Non c’è pace tra gli ulivi, ai desideri emancipatori di Un marito per Anna Zaccheo, alla centralità del femminile da Riso amaro a Roma, ore 11. Annunciato da titoli di testa gorgheggiati da un cantastorie, è il racconto popolare di una fujitina, unico mezzo con cui i poveri aspiranti sposi potevano eliminare le spese delle nozze, che riflette sul matrimonio quale impalcatura fondamentale nell’immaginario della società italiana.

Quando Mastroianni dice “che ce ne importa alla gente se due contadini si sposano!” sembra quasi non rendersi conto di quante passioni si smuovano nella piccola comunità ciociara, acuendo antiche rivalità e mettendo chiunque nella condizione di poter commentare la situazione, dal prete al maresciallo passando per il nano e i parenti fino all’irresistibile fratellino seminarista.

Per la prima volta alle prese col colore, De Santis e il suo operatore storico, il grande Otello Martelli, possono contare sulla collaborazione come scenografo e costumista del pittore neorealista Domenico Purificato, le cui origini fondane uguali a quelle del regista garantiscono un’adesione ai luoghi, ai riti, ai miti di un mondo qui straordinariamente scandagliato.