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Marco Ferreri e l’ossessione del piacere
L’intelligenza di Ferreri è di una lucidità agghiacciante ma anche di una maestria sopraffina: riesce infatti ad adattare la forma della sua opera al racconto che sta portando avanti. In Break-Up inserisce una frastornante sequenza a colori che stordisce lo spettatore proprio come la festa piena di palloncini stordice Mastroianni; la raffinatezza curatissima delle scenografie, degli arredi di scena e dei costumi della Grande abbuffata riflette l’estetismo quasi decadente che gli amici protagonisti ricercano nel loro soggiorno di addio alla vita nella villa in campagna; la linearità schematica, ripetitiva e inesorabile del racconto di Diario di un vizio rende perfettamente l’angoscia esistenziale che si muove sottotraccia nell’animo di Jerry Calà.
“Il bigamo” e gli archetipi della commedia classica
La commedia era il genere prediletto dal pubblico del dopoguerra, desideroso di dimenticare in fretta gli orrori della guerra e ottimista verso la ricostruzione. Il bigamo da un lato partecipa a questa festa di aspirazioni, ma dall’altro è un’opera molto più consapevole, caratterizzata da una sapiente rilettura della commedia classica, scandita da un calibrato meccanismo di azione/reazione, paradosso/realtà, apparire/essere. L’imprevedibile intreccio dei fatti, come gli efficaci dialoghi sono il frutto di un curato lavoro di sceneggiatura, operato da Vincenzo Talarico, Francesco Rosi, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli.
“Il bigamo” di Luciano Emmer al Cinema Ritrovato 2018
Ciò che tuttora colpisce dello sguardo di Emmer è la capacità con la quale riesce a non buttare in farsa una materia pronta a costituire una serie di sketch d’avanspettacolo. Il merito sta nella ricerca di un’autenticità che rende credibili non solo il contesto sociale e gli spazi domestici di una piccola borghesia incardinata nella centralità del sistema-famiglia garantito dal matrimonio, ma anche i personaggi sulla carta troppo improbabili per essere davvero verosimili. In virtù della sua coralità, Il bigamo offre la possibilità di godere di un cast pazzesco, in cui gli attori sono utilizzati con sapienza nei tipici ruoli del periodo, a parte forse Marcello Mastroianni che cominciava ad emanciparsi da quello standard formalizzato proprio da Emmer.
“Spara forte, più forte… non capisco” di Eduardo De Filippo al Cinema Ritrovato 2018
Nel 1966 De Filippo e Rota sono due professionisti affermati e di spicco nei rispettivi campi, Mastroianni è nel suo periodo d’oro di piena attività, e la Welch vive in pieno la sua parabola ascendente, tra gli esordi con Elvis Presley e la notorietà mondiale da sex symbol avuta con Un milione di anni fa. Eppure questo film paga forse proprio il fatto di sembrare troppo facilmente un’accozzaglia di personalità mainstream, messa insieme a suon di miliardi (di lire) per ottenere così quello che oggi chiamiamo “effetto blockbuster” al botteghino, cosa che, come risaputo, non era vista di buon occhio dalla critica, e che comunque non avvenne.
A cavallo tra storia e finzione: il rivoluzionario Mastroianni di “I compagni”
Nella sterminata filmografia di Mastroianni, un film come I compagni rischia di apparire come secondario, soverchiato da un numero invidiabile di classici usciti a brevissima distanza. In quei tre anni – dal 1960 al 1963 – arrivarono sullo schermo, una dopo l’altra, le perfomance più ricordate dell’attore, che si giostrava tra il gotha di registi del decennio passato e presente: dai capolavori felliniani (La dolce vita, 8 e ½) a Ieri, oggi e domani di De Sica, passando per i ruoli siciliani del bell’Antonio e del barone Fefè Cefalù, senza dimenticare l’esperienza con Antonioni in La notte. Di fronte a titoli così ingombranti, fondamentali per l’esplosione dell’icona Mastroianni nell’immaginario collettivo, sembra spontaneo attribuire un’importanza minore, per la sua carriera, alla pellicola di Monicelli.
“Cronaca familiare” di Valerio Zurlini al Cinema Ritrovato 2018
Esprimere il massimo della vitalità e dell’entusiasmo morendo, legati a un letto di contenzione: è la condizione che lega inscindibilmente l’Ettore pasoliniano di Mamma Roma e Lorenzo, quell’uomo ancora bambino che esala l’ultimo respiro conservando i tratti dell’ingenua e tenera fanciullezza che Valerio Zurlini racconta in Cronaca familiare. A loro modo, sullo sfondo di due vicende che prenderanno poi le pieghe del dramma familiare e psicologico, Pasolini e Zurlini riportano sullo schermo l’indigenza e le ristrettezze fisiche e morali a cui dovevano far fronte le classi meno abbienti nel dopo guerra, il rifiuto e poi la necessità del compromesso e l’isolamento che segue alla mancanza di prospettive e risorse; se, da un lato, è come se il poeta friulano planasse sulla tragicità della storia senza macigni sul cuore, con una leggerezza che lascia spazio a parentesi umoristiche e di una tenuità che stemperano l’atmosfera di fondo – e Anna Magnani ne è la protagonista – non c’è nulla che, in Zurlini, ne addolcisca i toni o smussi gli angoli.
Il richiamo alla dimensione agreste attraverso i colori in “Giorni d’amore”
In Giorni d’amore di Giuseppe De Santis, primo film a colori del regista e della coppia Marcello Mastroianni e Marina Vlady, nonché fiaba romantica ambientata in una cornice bucolica, i colori possiedono una dimensione fortemente simbolica. A risaltare sono innanzitutto il verde e il rosso, di cui si tingono di frequente gli abiti dei protagonisti: è verde la camicia di Pasquale (Marcello Mastroianni), così come lo scialle indossato da Angela (una giovanissima Marina Vlady), o l’abito rosso della bella contadina ciociara in cui compaiono decori nuovamente verdi. Il rosso vivace dei pomodori appesi un po’ dappertutto sulle case o dei peperoncini scaramantici, tipici della cultura dell’Italia contadina e meridionale, è lo stesso del nastrino che intreccia i capelli biondi della Vlady o le fasce al collo dei contadini.
“Giorni d’amore” fiammeggiante miniatura
Non è difficile trovare, nel cinema italiano degli anni Cinquanta, tra produzioni picaresche ed inaspettati prestiti dall’estero, scelte di casting particolarmente ardite che spesso funzionano proprio in virtù della loro assurdità. Al contempo non sono rare neppure certe fortunate deviazioni: è il caso di Giorni d’amore, che in un primo momento prevedeva come protagonisti Gérard Philipe e Silvana Mangano. Se si stenta a credere allo sfortunato ed elegante divo francese nel ruolo di un contadino ciociaro, occorreva altresì un grande sforzo per accettare la splendida star di Anna come vispa campagnola poco più che adolescente. La storia è andata diversamente e non si riesce ad immaginare una coppia diversa da quella formata da Marcello Mastroianni (accreditato Mastrojanni) e Marina Vlady, credibili nonostante i quattordici anni di differenza.
“Il bell’Antonio” al Cinema Ritrovato 2018
Il bell’Antonio, nato dal connubio tra lo sguardo di Bolognini e le penne di Pasolini e Vicentini, dimostra come si possa efficacemente ricontestualizzare un testo letterario senza smarrirne l’identità. Dove il romanzo omonimo di Brancati sfruttava l’impotenza del protagonista per scandagliare il vuoto culturale celato da un intreccio di gallismo e fascismo nella Sicilia del Ventennio, la pellicola di Bolognini, ambientata negli anni Sessanta, solleva obliquamente il problema del rapporto del soggetto con le istituzioni. Il male di Mastroianni, che fa capolino esplicitamente a metà pellicola come il villain di un horror, sarebbe stato forse curato da un matrimonio felice, se solo la famiglia della sposa non avesse fatto uso dell’autorità ecclesiastica per troncare il legame tra i due giovani. Barbara, impersonata da Claudia Cardinale, decide di abbandonare il marito in seguito alle parole degli uomini di chiesa, ed è quindi la pressione della burocrazia pontificia a rovinare quello che per Antonio era un porto sicuro, al riparo dalle continue pressioni delle donne che lo corteggiavano.
Marcello, come here!
Quella del cosmopolita Mastroianni è una parabola irripetibile tra gli attori italiani: ha recitato per e con chiunque in più o meno centocinquanta film tra i quali è difficile trovare qualcosa di davvero imbarazzante ed è forse l’unico tra i grandi del suo tempo ad aver chiuso la carriera con suprema dignità. Per dire, negli ultimi dieci anni di attività si è tolto lo sfizio di lavorare in mezzo mondo con nuove leve (Giuseppe Tornatore, Francesca Archibugi) e venerati maestri (Robert Altman, Manoel de Oliveira, Raul Ruiz, Theo Angeolopulos), schizzando ritratti memorabili (Oci ciornie, Verso sera, Sostiene Pereira). E allora, sì, ha senso ritrovare Marcello Mastroianni, specialmente ora che non c’è alcun particolare anniversario tondo da onorare. Diciamolo, è rincuorante che si riesca tuttora a percepire quanto il connubio abbia saputo determinare un’epoca, attraverso atti che non hanno perso un briciolo della loro potenza dinamitarda come La dolce vita e soprattutto 8 ½.
“Break up – L’uomo dei cinque palloni” come nuovo classico
I titoli di testa del film: serigrafie automatiche in nero e bianco con tratti grossi e decisi si stampano sullo schermo anticipando il ritmo dei pistoni delle macchine industriali delle scene successive. Si tratta di un film che è stato visto pochissimo e che rappresenta per la storia del cinema un ritrovamento di grande importanza, una lieta sorpresa che il passato ci ha riservato, destinata ad aggiungersi alla lista dei favoriti di sempre. Nonostante una troppo lunga assenza, questo film è certamente ancora in tempo per diventare un classico.
Cinema Ritrovato 2017: ancora su “Domenica d’agosto”
Torniamo ancora su Domenica d’agosto. Del resto, l’esordio alla regia di Luciano Emmer segnò il riuscito incontro tra il quasi esaurito Neorealismo e le prime forme di commedia all’italiana, un malinconico racconto corale che è anche un meticoloso spaccato dell’Italia nel Dopoguerra. E per questo motivo, nella copia vista al Cinema Ritrovato, merita i nostri approfondimenti.