Il pressbook di Gioventù perduta (1948) annuncia il film come la storia di “un giovane, che vive una doppia esistenza, [e che] uccide con fredda ferocia”, cercando di “sottrarsi al cerchio inesorabile della giustizia”. Le immagini richiamano questa dimensione noir, fin dal disegno di copertina che rielabora le sembianze dell’attore Jacques Sernas nel ruolo di Stefano, giovane malvivente di buona famiglia, in chiave quasi espressionista, in un chiaroscuro a cui fa da sfondo una chiazza rossa che sembra una pozza di sangue. Le foto di scena all’interno riprendono questa estetica noir, mostrando sparatorie, interrogatori, bische e night.
Contemporaneamente, Gioventù perduta viene caratterizzato come “un documento angoscioso del nostro tempo”, “un fatto ‘vero’ nella sua tragica realtà”: paradossalmente, a sostenere questo argomento di verità e di cronaca del tempo è un articolo di giornale creato ad hoc dalla finzione cinematografica e che riassume il delitto di cui si macchia Stefano per evitare di essere scoperto come capo di una banda di rapinatori, già responsabile di altri due delitti.
Lo stesso film, per bocca del padre di Stefano, docente universitario, ripropone esplicitamente questo suo essere un documento del tempo. In una scena che le commissioni di revisione chiesero di modificare (inizialmente addirittura di sopprimere) per concedere il nulla osta alla proiezione negato per due volte nel corso del 1947, il professor Manfredi tiene infatti una lezione in cui illustra la crescita del crimine negli anni del dopoguerra.
Una crescita non così esponenziale a livello generale come qualcuno aveva previsto, ma che tale è se si prende in esame una particolare fascia della popolazione: proprio i giovani delle famiglie borghesi che riempiono l’aula universitaria, “squassati dai due più grandi flagelli che possano colpire l’umanità, la dittatura e la guerra”.
Da questo gruppo proviene, ovviamente, lo stesso protagonista del film. La caratteristica di “documento del tempo” non veniva, tuttavia, utilizzata solo da chi cercava di promuovere commercialmente Gioventù perduta o parare, in nome anche della condanna del fascismo, i colpi delle commissioni di revisione, ma anche da questi stessi organismi istituzionali.
Secondo la commissione di II grado, il nulla osta al film va negato in quanto questo “costituisce – sia pure senza volontà degli autori – una vera e propria scuola di reati, tanto più pericolosa in quanto efficacemente si riannoda alla psicologia ed al costume dell’attuale traviato periodo post bellico”. L’idea del cinema come una “scuola di reati” diventerà poi una costante nei giudizi di revisione preventiva e definitiva dei film polizieschi e gialli italiani degli anni '50.
Gioventù perduta bilancia questa prima illustrazione di una classe borghese criminale, che verrà ripresa successivamente da Antonioni ne I vinti (1953) e in film ormai dimenticati come Gioventù alla sbarra (1953) di Ferruccio Cerio e I colpevoli (1957) di Turi Vasile, affiancando alla storia del delitto quella dell’indagine. Questa seconda dovrebbe mostrarci la speranza di chi, per citare sempre dal pressbook, “per il bene combatte con coraggio e lealtà”. Il giovane ispettore di polizia Marcello Mariani (Massimo Girotti), infatti, ha già dei fondati sospetti e, per avvicinarsi a Stefano, si introduce nell’ambiente degli studenti universitari romani: la conoscenza di Luisa (Carla del Poggio), ignara sorella del criminale, gli dà la possibilità di frequentare tutta la famiglia e di rafforzare i suoi sospetti sul giovane studente.
Tuttavia, c’è qualcosa di disturbante anche in Marcello, pur con tutta la bellezza di Massimo Girotti: un poliziotto che mente, che sostiene che la polizia “non ha nulla di vero” e che prova anche a negare l’evidenza sostenendo davanti a Luisa che non devono più vedersi non per l’indagine sul fratello, ma perché il suo lavoro non gli permetterebbe di offrirle un futuro come lei desidera. Anche in questa caratterizzazione, Germi si conferma un testimone scomodo.