Alla presentazione del suo secondo lungometraggio Il ragazzo più felice del mondo, il fumettista Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, ci avverte: è un film da ridere, costato poco, da prendere come viene. Così facciamo e, sin dal primo botta e risposta esilarante con Domenico Procacci, lo seguiamo in una commedia spassosa - a cavallo tra fiction e documentario - dai risvolti inaspettati e commoventi, che riflette sul senso stesso del raccontare. Tutto ha origine da un’ossessione. Quando Gipi decide di realizzare un film su un fatto curioso, a lui realmente accaduto, fa di tutto pur di raggiungere il proprio obiettivo, rischiando di perdere il rispetto per gli altri e per se stesso. La vicenda che vorrebbe raccontare ruota attorno alla scoperta dell’identità di un fan che, da oltre vent’anni, si finge un quindicenne e invia lettere di ammirazione, tutte uguali, a lui e molti suoi colleghi disegnatori. Accompagnato da tre amici sopra le righe, intraprende un viaggio che lo porterà a compiere una difficile scelta morale tra l’urgenza del racconto e il rispettoso riserbo.

La storia si articola attraverso numerosi strati di realtà; è difficile capire cosa sia accaduto realmente e cosa, invece, costituisca il prodotto della mente dell’autore, quali siano i personaggi reali e quali fittizi. In questa matrioska di artifici meta-cinematografici, tra citazioni ed omaggi – in chiave umoristica - ad altri film, svelamento del set e rottura della quarta parete, Gipi sembra smarrirsi. Ormai preda del suo stesso narcisismo, confessa di essere intrappolato nella storia - proprio come noi spettatori - che vuole raccontare a tutti i costi, nelle sue manipolazioni discorsive, senza riuscire più a discernere la realtà dalla finzione. La parabola antieroica giunge al suo culmine. L’unico modo per salvarsi è rinunciare alla ricerca e al racconto. Gipi, con un tocco di convincente ruffianeria, si concede il riscatto. Così, l’obiettivo ultimo del film sfuma, la rivelazione del mittente misterioso è in realta il McGuffin hitchcockiano, un espediente narrativo che mette in moto la trama e coinvolge gli spettatori salvo poi essere tralasciato per raccontare un’altra storia, più urgente: in un mondo in cui viene mostrato tutto - vita, amori, sconfitte, vergogne - con o senza legittimazione, senza pudore o rispetto, la scelta più rivoluzionaria è non mostrare, tacere.

Il bello delle opere di Gipi - siano esse graphic novels, corti o lungometraggi – sta nell’immediatezza del linguaggio, nel sincero amore per l’immagine e per la parola. Chi lo conosce già come acclamato fumettista, entra in sala e si gode il giocoso scherzare con le costruzioni cinematografiche, la comicità del suo estro rispetto ai toni più filosofici e cupi dei fumetti. Chi, invece, si approccia a lui per la prima volta, ha la possibilità di apprezzare un nuovo autore del piccolo cinema italiano che, senza pretese da grand maître del cinema, fa ridere molto e riflettere anche. Pur con alcuni difetti di sceneggiatura, tra ingarbugliamenti eccessivi di trama e battute naïf nei momenti in cui il linguaggio si fa serio, Gipi riesce a comunicare il suo mondo e mostrarsi, come sempre, autentico e leggero, pur nella sua complessità. Ed così che deve esser visto il suo film, con leggerezza. Che nella leggerezza, spesso, si trova l’essenza della narrazione.

“Ma, alla fine, chi è il ragazzo più felice del mondo?” “Sono io, quando riesco a scrivere una storia e raccontarla, a prendere quel treno che ci porta molto lontano, in luoghi mitici e sconosciuti”. Così risponde Gipi, in un’autentica dichiarazione d’amore alla vita nel suo farsi racconto.