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“La terra dei figli” e l’apocalisse italiana, tra cinema e fumetto

Come specificato, La terra dei figli è liberamente ispirato alla graphic novel di Gipi.  L’impressione è che Cupellini si sia perso nelle pieghe di questa libertà.  Gipi è un artista di suggestioni, di simbolismi e immagini evocative. Per questo, mettere in scena una sua opera è un’operazione rischiosa.  Il film sembra funzionare fin quando si mantiene fedele al testo, ricalcandone le ambientazioni cupe e oppressive e la ferocia del silenzio. Dal mid point in poi, Cupellini interviene sul racconto. Si perde la dimensione fiabesca del fumetto – che per personaggi grotteschi e tappe evolutive ricorda una fiaba dei fratelli Grimm – in favore di maggior realismo e un’ambientazione steampunk.

Gipi, il ragazzo più felice del mondo

Il bello delle opere di Gipi – siano esse graphic novels, corti o lungometraggi – sta nell’immediatezza del linguaggio, nel sincero amore per l’immagine e per la parola. Chi lo conosce già come acclamato fumettista, entra in sala e si gode il giocoso scherzare con le costruzioni cinematografiche, la comicità del suo estro rispetto ai toni più filosofici e cupi dei fumetti. Chi, invece, si approccia a lui per la prima volta, ha la possibilità di apprezzare un nuovo autore del piccolo cinema italiano che, senza pretese da grand maître del cinema, fa ridere molto e riflettere anche. Pur con alcuni difetti di sceneggiatura, tra ingarbugliamenti eccessivi di trama e battute naïf nei momenti in cui il linguaggio si fa serio, Gipi riesce a comunicare il suo mondo e mostrarsi, come sempre, autentico e leggero, pur nella sua complessità.

Venezia 2018: “Il ragazzo più felice del mondo” di Gipi

Film sul fare film, Il ragazzo più felice del mondo è per certi versi l’espansione felicemente egocentrica delle pillole realizzate da Gipi per la trasmissione Propaganda: vi ritroviamo l’ossessione per l’arrembante odio in rete da parte di perfetti sconosciuti imbarbariti dal dibattito pubblico, i dialoghi surreali con personaggi troppo assurdi per non essere veri, l’utilizzo dei codici del documentario per innescare strategie narrative in bilico tra l’autobiografia e la reinvenzione del reale. A suo modo, un oggetto indecifrabile, che nell’ammettere l’ispirazione ad un fatto reale prova a ragionare sul concetto di “filmabile”, unendo attori in ruoli bizzarri (il mago, la grafologa, l’amico travestito) ed amici coinvolti come se stessi in un patchwork interessato a capire limiti e confini del mettere in scena la realtà.