Raccontare la transessualità - come l’omosessualità o anche soltanto la sessualità - al cinema è un po’ come una lama a doppio taglio: il rischio è di scivolare nei cliché, nei toni melodrammatici e svilenti di storie che vorrebbero essere di rivalsa, di rivendicazione d’identità di genere e\o orientamento sessuale, optando per il solito, prevedibile viaggio dell’eroe, con gli altrettanto soliti e prevedibili conflitti e dissidi tra ciò che si è e ciò che l’esterno vuole che uno sia. In opere di questo tipo è come se si sapesse già tutto, come se gli esiti di sviluppo, agnizione e scioglimento (e non a livello di trame e accadimenti, quanto, soprattutto, di scavo interiore e grado di complessità che si vuole dare al personaggio) siano ormai sedimentati nel fondo delle nostre categorie di percezione e valutazione. Risaputi, intuibili, e perciò freddi, congelati da una sostanziale omogeneità di sguardo, senza dubbio restio ad osare.
E Girl, primo lungometraggio del cineasta belga Lukas Dhont è grossomodo la sintesi di tutti questi elementi. Victor abita un corpo che non è il suo. Decide di diventare Lara e perseguire con dedizione una carriera da danzatrice già di per sé ostica, e resa, in questo caso, ancora più dura dai suoi limiti fisici, «cose che non si possono cambiare». Il film segue con scrupolo e rigore tutto il percorso di transizione di Lara, non lasciandosi sfuggire nulla, dal rapporto con il padre ai problemi con le sue compagne, tra competizioni, sfide, pregiudizi, attraversandone tutta la sofferenza e il dolore, specialmente corporali.
Girl è costruito in maniera impeccabile, ma come ha scritto di recente Giulio Sangiorgio su CineCriticaWeb, con una lettera di risposta all’intervento di Piero Spila Contro la critica e i critici del gusto: "Abbiamo visto troppo cinema, troppe avanguardie, troppi sdoganamenti, troppi terremoti del gusto per credere che due o tre categorie basate sulla beltà della sceneggiatura, l’armonia delle parti, l’innovazione del linguaggio, possano essere le sole coordinate con cui emettere un giudizio. Ci sono troppe immagini oggi, per pensare al cinema con strumenti tanto antichi".
Ed effettivamente, andando oltre l’estetica fulgida, una concatenazione di fatti ed eventi lineare, fluida, oltre l’architettura di un film che incalza e basta, non sottraendo né mettendo alle strette, c’è solo freddezza, ci sono solo manicheismi. Rimane tutto in superficie. L’interprete di Lara, Victor Polster, è splendido e la macchina da presa è come se lo pedinasse, come se, cercando il corpo, non lo trovasse mai realmente. E Dhont risulta pudico e distante anche nella messa in scena di questo stesso corpo, di cui, d’altra parte, avremmo dovuto sentire tutta l’urgenza, tutta la necessità di metamorfosi; e l’impellenza di questo desiderio vuole essere risolta da un finale accomodante, indulgente e raffazzonato, che non fa altro che riconfermare l’arrendevolezza di una poetica con la quale, se realmente volesse, potrebbe spingersi molto oltre.