Lione, 2014. Alexander è un padre di famiglia, con cinque figli. L’intera famiglia va regolarmente a messa. Persino lui, Alexander, che da piccolo è stato abusato da padre Preynat più volte, per tutto il tempo durante il quale ha frequentato il corso scout della Chiesa. Padre Preynat che tutt’ora, dopo trent’anni, ancora ha contatti con i bambini. Così inizia Grazie a Dio, ultimo lungometraggio di François Ozon, vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino 2019. Un film quasi suddiviso in capitoli, dalla durata di due ore circa, in cui ogni mezz’ora è dedicata a un diverso personaggio, tutti uniti dal fil rouge dell’abuso sessuale da parte dello stesso prete. Basato su una storia vera, il film racconta di come molte vittime di padre Preynat si riuniscano per fondare l’associazione “La Parola Liberata” e creare un sito di denuncia contro il loro molestatore e contro tutti quelli che pur sapendo hanno taciuto: non solo il clero e la Chiesa, ma anche alcuni genitori e famiglie. “Allora non avete potuto proteggerci. Adesso tocca a noi proteggere i bambini che eravamo”.

Grazie a Dio affronta il difficile tema della pedofilia all’interno della Chiesa. Certamente non stupisce la scelta di un argomento così delicato da parte del regista francese, la cui filmografia più volte si è incentrata su temi difficili da affrontare: la pulsione di vita e di morte (Les amants criminels – 1998), l’elaborazione del lutto (Sous la sable – 2000) o ancora il narcisismo esasperato e la ricerca della propria identità nella sessualità (Jeune e Jolie – 2013). Differente è, questa volta, il modo in cui Ozon ha deciso di raccontarci la sua opera. Infatti, nonostante quelli che abbiamo chiamato “capitoli” del film, la vera unica protagonista del film è la parola. È un film fatto più dialoghi che di azione, di descrizione più che di movimento. Spesso è presente una voce fuori campo che legge la corrispondenza tra clero e laici. E questo passare da un personaggio all’altro, la cui storia viene raccontata sempre dall’inizio, non fa altro che rendere il ritmo monotono. Ciò nonostante, si deve riconoscere al regista francese l’abilità nel raccontare la pedofilia dal punto di vista delle vittime senza banalizzare, e dando luce anche alle più minime conseguenze nella vita quotidiana di chi ha subito un tale orrore durante l’infanzia.  

Più che un film di denuncia, è un film che vuole raccontare i fatti (da qui il suo carattere prettamente descrittivo). Un film che ci fa riflettere sulla responsabilità dei genitori di proteggere i propri figli. Sull’ormai conosciuto problema di pedofilia all’interno della Chiesa, in tutto il mondo. Ma che, soprattutto, ci fa vedere concretamente come un trauma così profondo possa condizionare per sempre la vita di un uomo adulto. Il credo cattolico, o per lo meno di un certo tipo di Chiesa, si basa sul senso di colpa e sul perdono. “Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa”. Sulla misericordia di Dio che toglie i peccati del mondo. Ma l’uomo può commettere peccati troppo gravi per essere perdonato da un suo simile. “Se l’avessi perdonato, saresti stato la sua vittima per sempre”. E allora, in questi casi, il compito di perdonare lo lasciamo a un’entità più grande. A noi spetta, invece, il compito di raccontare e di conoscere. Di fare giustizia.