Prima occasione per gli spettatori di vedere insieme Totò e Aldo Fabrizi sul grande schermo, Guardie e ladri diede seguito alla rodata collaborazione teatrale tra i due giganti della comicità, tratteggiando dei personaggi che, tipicamente monicelliani e anticipatori della commedia all’italiana, sotto la comicità esteriore lasciano intravedere uno spessore se non drammatico quanto meno malinconico. Il registro del film mescola infatti umorismo e compassione, lasciando liberi i due attori di sfidarsi a colpi di battute fulminanti ma incorniciandoli in una storia che prende il via da una truffa, prosegue con un inseguimento del ladro Totò da parte della guardia Fabrizi e termina con un confronto che umanizza i personaggi e li dipinge a tutto tondo, astraendoli dai loro ruoli eponimi per farne due rappresentanti di umanità.

Se la guardia era decisamente nelle corde dell’attore romano e non si distaccava molto dal suo personaggio-tipo né quanto a carattere né quanto a modalità di interazione con gli altri personaggi quali i superiori o la moglie (ancora una meravigliosa Ave Ninchi), è il ladro di Totò a sorprendere per la coesistenza di tratti comici e di animo comprensivo e, in fondo, altruista. Lo stesso Totò quando lesse la sceneggiatura chiese a Monicelli: “Io cosa c’entro? Questo è un film per Fabrizi”, riconoscendo l’atipicità del ruolo propostogli dai registi e dal produttore Carlo Ponti. Anche agli occhi dello spettatore di oggi la scommessa è vincente: soltanto Pasolini ha osato spingersi oltre su questa strada di costruzione (o re-invenzione) del personaggio cinematografico di Totò.

I due grandi dominano il film in antitetici ruoli a livello narrativo ma complici a livello attoriale: l’uno serve la battuta all’altro, sempre cercando di trattenere la risata che pur assai di frequente esplodeva e costringeva Steno e Monicelli a rigirare la scena. Fabrizi giganteggia con la sua fisicità strabordante ma aggraziata nei piccoli movimenti, le sue frasi a metà, il suo strabuzzare gli occhi, il suo muovere la testa come continuazione visiva di un discorso verbale. Totò offre le sue movenze comiche e i suoi giochi di parole, mantenendo però una nobiltà di modi, un’eleganza di movimento che se apparentemente stona con la “professione” di Ferdinando Esposito si rivela in realtà perfettamente coerente con la nobiltà d’animo che dimostra alla fine del film.

La scena dell’incontro finale tra la guardia e il ladro, nell’androne del palazzo, è da antologia sia per quanto riguarda la sceneggiatura sia per quanto riguarda la fotografia di Mario Bava: il discorso di Fabrizi finalizzato a giustificare le proprie azioni e il ribaltamento dell’ottica dominante operato dalle parole di Totò sorreggono questo confronto finalmente vis-à-vis incorniciato da una architettura e da una luce che improvvisamente rivelano il dramma umano delle situazioni personali dei personaggi. E poi la sequenza finale, in cui si arriva quasi a un ribaltamento di ruoli dove è il ladro a convincere la guardia a portarlo in prigione: narrativamente è certo un lieto fine, il cerchio si chiude, l’inseguimento ha termine, ma è al contempo tanto malinconica da ricordare Charlot.

Durante l’introduzione al film, la nipote di Aldo Fabrizi ha voluto ricordare la grande amicizia che legò per decenni suo nonno a Totò leggendo una lettera da lui scritta all’amico in un momento di difficoltà. Ne riportiamo un estratto per omaggiare il legame non soltanto professionale che univa questi due mostri sacri del nostro grande cinema: “Mio caro, dolcissimo compagno di lavoro, mio schietto e incomparabile amico, mio buon fratello nella nostra un po’ sfiorita giovinezza, tu non puoi immaginare quanto io ti sia vicino e quanto io ti voglia bene. Auguri di guarire presto, auguri di tornare più giovane di sempre e auguri – questi ultimi li rivolgo pure a me stesso – di ritrovarci presto in uno stesso film”.