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“Risate di gioia” favola “trucibalda”
La definizione di “favola di Capodanno” per descrivere Risate di gioia e l’enfasi posta sul ritorno del duo Magnani-Totò, con le perplessità dell’attrice a riformare una coppia da Rivista pochi anni dopo la vincita del Premio Oscar e la sua ossessione per non apparire così “trucibalda” come gli sceneggiatori l’avrebbero voluta, hanno oscurato l’indagine del film sul consumismo degli anni del boom economico. Quella “passione delle cose inutili” che domina le sfere del pubblico e del privato rappresentate nel film.
“Romanzo popolare” tra Monicelli e Tognazzi
Giocando a Guardie e Ladri con il Neorealismo, Mario Monicelli congeda l’Italia dalle memorie della guerra. Tra sorpassi, divorzi e armate, si ritrova con i “soliti noti” (Age, Scarpelli, Risi, Steno) a rappresentare la realtà del paese attraverso un genere che dava l’idea di popolo, grazie alla naturalezza stessa dei personaggi che possono fallire, che non appartengono all’universo della maschera, ma a quello della verità. Ed è un esempio naturale accostare il nome di Ugo Tognazzi nella stagione dei Gassmann e dei Mastroianni, delle Vitti e delle Melato, marchio di fabbrica tra gli “operai qualificati” di questo romanzo destinato a diventare popolare.
“Vita da cani” e il fascino nostalgico dell’avanspettacolo
La storia produttiva di Vita da cani si intreccia in maniera indelebile con quella di un altro film sul mondo dell’avanspettacolo, il primo in cui Fellini vide il suo credito come regista insieme al maestro Alberto Lattuada, ossia Luci del varietà. All’epoca gli spettatori non apprezzarono troppo l’uscita così ravvicinata di due film tanto simili nella trama che seguivano pressappoco lo stesso canovaccio: le avventure nella provincia italiana del capocomico di una scalcinata compagnia di varietà, furtivamente illuminate dalla “polvere di stelle” del successo, prima inseguito come sogno irraggiungibile e poi subito riconsiderato come moneta con un prezzo troppo alto da pagare in termini di moralità. Eppure oggi siamo grati al cinema per aver avuto la lungimiranza di immortalare l’essenza di un mondo che è ormai scomparso, e che se allora era considerato come squallido e da dimenticare, oggi noi vediamo come romantico e ormai perduto.
“Guardie e ladri” con ribaltamento (monicelliano) di ruoli
Prima occasione per gli spettatori di vedere insieme Totò e Aldo Fabrizi sul grande schermo, Guardie e ladri diede seguito alla rodata collaborazione teatrale tra i due giganti della comicità, tratteggiando dei personaggi che, tipicamente monicelliani e anticipatori della commedia all’italiana, sotto la comicità esteriore lasciano intravedere uno spessore se non drammatico quanto meno malinconico. Il registro del film mescola infatti umorismo e compassione, lasciando liberi i due attori di sfidarsi a colpi di battute fulminanti ma incorniciandoli in una storia che prende il via da una truffa, prosegue con un inseguimento del ladro Totò da parte della guardia Fabrizi e termina con un confronto che umanizza i personaggi e li dipinge a tutto tondo.
Non ci resta che piangere. Un ricordo di “Un borghese piccolo piccolo”
Nostrano Cane di paglia, Giovanni abbandona il suo passivismo, ma se per Peckinpah la trasformazione del protagonista da vittima a lucido carnefice è mossa da un estremo istinto di sopravvivenza e di autodifesa, per Monicelli è pura e semplice espressione della crudeltà insita in ognuno, che una solitudine (indotta o involontaria che sia) non può che fomentare. Solo il vivere civile può evitarlo, ma la società ha pressoché perso la propria capacità coadiuvante, alimentando l’isolamento del singolo in favore di una massa, le cui schegge impazzite spesso non restano che oscuri casi di cronaca nera. Una condanna che si fa anche congedo da un’attualità spaventosa, come dimostra la produzione successiva dell’autore che preferirà guardare quasi esclusivamente al passato.
Raffaele Pisu o dello spettacolo italiano
Quasi sempre caratterista, Pisu si ritrova protagonista curiosamente nell’unico dramma interpretato prima delle prove più recenti: è il disperato stagnaro romano che tenta di tornare a casa dalla Campagna di Russia in Italiani brava gente (1964), titanica e sfortunata coproduzione italo-sovietica di Giuseppe De Santis. Quello che avrebbe dovuto rappresentare un ambizioso punto di svolta per Pisu si è, invece, rivelata un’occasione mancata. Lo sfaccendato rampollo di un medico nella fondamentale commedia borghese Padri e figli (Mario Monicelli, 1956), il marinaio innamorato ne I pappagalli (Bruno Paolinelli, 1955), l’infido spione in Susanna tutta panna (Steno, 1957) sono gustosi guizzi, ma mai niente di davvero indimenticabile. Si ha l’impressione che al cinema nessuno abbia mai voluto davvero puntare su questo comico dall’animo sornione e il fisico signorile, che ha dovuto aspettare trentacinque anni per un’imprevedibile rentrée cinematografica.
A cavallo tra storia e finzione: il rivoluzionario Mastroianni di “I compagni”
Nella sterminata filmografia di Mastroianni, un film come I compagni rischia di apparire come secondario, soverchiato da un numero invidiabile di classici usciti a brevissima distanza. In quei tre anni – dal 1960 al 1963 – arrivarono sullo schermo, una dopo l’altra, le perfomance più ricordate dell’attore, che si giostrava tra il gotha di registi del decennio passato e presente: dai capolavori felliniani (La dolce vita, 8 e ½) a Ieri, oggi e domani di De Sica, passando per i ruoli siciliani del bell’Antonio e del barone Fefè Cefalù, senza dimenticare l’esperienza con Antonioni in La notte. Di fronte a titoli così ingombranti, fondamentali per l’esplosione dell’icona Mastroianni nell’immaginario collettivo, sembra spontaneo attribuire un’importanza minore, per la sua carriera, alla pellicola di Monicelli.
“I compagni” compie 55 anni
Nel 1963 Monicelli incappò in un fiasco al botteghino quando raccontò di uno sciopero a oltranza da parte di operai di una fabbrica tessile guidati da un professore socialista in una Torino di fine Ottocento. Questo film compie quest’anno 55 anni e – a dispetto dell’insuccesso al suo debutto – si ritaglia un posto d’onore tra le commedie amare più riuscite di Monicelli. Sicuramente la più partigiana, a partire dal titolo: I compagni. Proprio da qui, dal titolo, viene suggerita una coralità narrativa che Monicelli aveva già inseguito, senza riuscirci, ne La grande guerra, dove l’intenzione era inizialmente di raccontare le disavventure di un intero plotone che va a combattere, ma alla fine ad emergere sono i due protagonisti interpretati da Vittorio Gassman e Alberto Sordi.
L’estro necessario: Emanuele Luzzati e Giulio Gianini
Visto che Il Cinema Ritrovato Kids ha reso omaggio alla lunga collaborazione, quasi quarantennale, tra Lele e Giugi, al secolo Emanuele Luzzati e Giulio Gianini, offrendo la possibilità a dei giovanissimi e fortunati spettatori di assistere a numerose proiezioni per poter scoprire il lavoro di questi due autori, vale la pena tornare a parlare di loro. L’amicizia tra Luzzati e Gianini trova la sua origine nella comune passione per il teatro dei burattini e dei pupi al quale guardano per il loro universo favolistico comico e poetico, caratterizzato dai personaggi e dalle scenografie bidimensionali di Luzzati.
La grande guerra di Mario Monicelli contro i tabù
Approfittiamo della proiezione al cinema Lumière de La grande guerra di Mario Monicelli nel contesto della retrospettiva dedicata al primo conflitto mondiale, per pubblicare un lungo approfondimento. Era il 1948. Dino De Laurentiis voleva produrre un film tranquillo, qualcosa di non molto diverso da quel Come persi la guerra di Carlo Borghesio con Erminio Macario che era stato un buon affare l’anno prima, anche se gli organi competenti gli avevano negato il permesso di esportazione. Mario Monicelli un giorno gli parlò di un soggetto di Luciano Vincenzoni intitolato Due eroi?, ispirato ad un racconto di Guy de Maupassant. La storia di due amici scansafatiche inghiottiti nel turbine di una guerra che finiscono per comportarsi da eroi rientrava perfettamente nelle corde di Monicelli ed era un ottimo spunto su cui lavorare.