“La voce della sofferenza è una voce innocente. Scaccia via le certezze. Scaccia la verità. Scaccia tutto il resto”. Sono parole di Charlotte Rampling, contenute nell’autobiografia romanzesca che ha scritto con Christophe Baitalle: si chiama Io, Charlotte Rampling ed è un testo incredibile per autenticità e coscienza di sé. Cosa c’entra con Hannah, opera seconda del trentino cosmopolita Andrea Pallaoro? Apparentemente niente, quindi tutto. C’entra che lei è una delle poche attrici al mondo capace di incarnare questa donna dal nome palindromo, senza patria, abitante di una città volutamente indefinibile (la metropolitana è di Roma, gli esterni a Bruxelles, la lingua è francese…). Se è vero che Pallaoro l’ha scritto pensando a lei, allora ci spingiamo a pensare che, pur non essendo chiaramente un film autobiografico, Hannah cresca davvero tra le pieghe dell’autobiografia di Rampling. Con tutto quel bagaglio di esperienze che le hanno segnato il meraviglioso volto, il corpo perturbante di un’anima apolide ed errabonda, il fascino maturo di un’attrice che in ogni stagione della vita ha dialogato col cinema ad armi pari.

“Guardo nello specchio grande una donna che non riconosco. Un volto mosaico, pezzi autonomi scelti per caso. Diverse espressioni relazionate, riorganizzate per formare un volto”, dice ancora nel suo memoir, e non riusciamo a distaccarcene di fronte a questo one woman show di novantacinque minuti, dove è sempre in scena e concede più di se stessa: la presenza dimessa, la pelle cadente, lo sguardo ipnotico sono doti che lo sguardo implacabile di Pallaoro capisce di dover impiegare come tasselli di una narrazione apparentemente antinarrativa. Lo spunto è pura cronaca nera: la vita di una donna è devastata quando il marito viene incarcerato per aver commesso qualcosa d’innominabile, molto probabilmente pedofilia. Una macchia, un’infamia che si porta addosso colei che è rimasta accanto al mostro: il cuore del film si rintraccia nel pedinamento intimo di un personaggio isolato dagli affetti familiari e da una società incapaci di accettare ciò che lei si sta sforzando di capire.

Hannah, personaggio e film (il personaggio è il film), è uno stato d’animo precario, inquietante, traumatizzato. Un’evanescenza corporea, una figura ectoplasmatica che vaga in interni domestici e spazi metropolitani, rivendicando continuamente il suo essere comunque parte di un mondo che la respinge. Sconta la crudeltà altrui come un peccato inevitabile: ma il ritiro dell’abbonamento in piscina e il respingimento da parte del figlio non costituiscono per Pallaoro occasioni per esercitarsi in una furba pornografia del dolore. Al contrario, per quanto possa sembrare strano per un film così straniante e disturbante, inospitale anche nei cromatismi di Chayse Irvin (con Pallaoro già nell’esordio Medeas), sa montare con intelligenza una tensione che gli permette di penetrare nel giallo esistenziale, dentro la quotidiana convivenza con una ferita mortale. E infine annega nel finale in apnea che nega l’ineluttabile con un’allegoria – tanto importante da dover essere in origine il titolo del film – e rivela quanto la realtà possa essere insostenibile.