Prodotto della propaganda fascista in chiave anti-americana a sostegno delle imprese coloniali italiane, Harlem (1943) di Carmine Gallone viene restituito nella sua versione integrale, senza la censura di oltre mezz’ora operata dopo la fine della dittatura fascista, di tre mesi successiva all’uscita nelle sale. Ricostruire la versione originale e rifletterci criticamente significa andare oltre il doveroso e obbligato orrore per i dettami fascisti sulla purezza della razza e scendere più ideologicamente in profondità, consapevoli del pericolo del “fascismo che affascina”, per citare le parole del celebre saggio di Susan Sontag. Harlem non è semplicemente un documento storico, ma un monito culturale per il nostro presente.
Tommaso (Massimo Girotti), promettente pugile, accompagna il nipotino Tony in America dal padre Amedeo (Nazzari) che ha lasciato il paese natio per realizzare il suo sogno americano: il suo impero economico va dalle attività edilizie agli spettacoli di varietà. Nonostante le raccomandazioni del saggio fratello, Tommaso inizia una folgorante carriera pugilistica. Le tensioni tra i due fratelli si risolveranno quando Amedeo sarà ingiustamente arrestato per omicidio proprio all’inizio dell’invasione italiana dell’Eritrea: Tommaso organizzerà un incontro di pugilato al Madison Square Garden con il campione africano Charlie Lamb per raccogliere i soldi necessari per la difesa del fratello.
Il match è l’occasione per qualificare l’impresa coloniale italiana come civilizzatrice, rappresentando i neri americani, nella migliore delle ipotesi, come rozzi, incapaci e scemi. In questa seconda parte, le masse americane sono esclusivamente afro-americane, l’unico baluardo a questo dilagare di volti neri sono gli italiani: nella sua impresa impossibile di battere un peso massimo come Lamb, Tommaso non è semplicemente guidato da ragioni famigliari ma anche dalla volontà di “rimettere questi neri al loro posto”. L’esibizione del corpo di Girotti sul ring è quella che Sontag chiama “un’utopia estetica (la perfezione fisica; l’identità come dato biologico)” che “implica un erotismo ideale: la sessualità si trasforma nel magnetismo del capo e nella gioia dei suoi seguaci”. Se nella finzione cinematografica Lamb perde, tuttavia, nello spazio extra-diegetico è lui a trionfare: interpretato dal figlio di un ufficiale coloniale fascista incarna la sconfitta della follia della purezza della razza.
Harlem schiera una vera e propria parata di star di regime: oltre a Nazzari e Girotti, ci sono Valenti, le dive Elisa Cegani e Vivi Gioi e il campione dei pesi massimi, Primo Carnera, che guida un gruppo di personalità sportive e giornalistiche nel ruolo di loro stesse. Il film ricorre ad uno spettacolo di set sfarzosi, costumi ricercati, spettacolari panoramiche dello skyline newyorchese, importanti scene di massa e continui colpi di scena. Gallone smonta il mito degli Stati Uniti come terra dell’abbondanza utilizzando le stesse strategie narrative e artistiche attraverso cui Hollywood l’ha creato e riconfigura il paese come dominio afroamericano fin dal titolo, in cui il quartiere nero diventa una metonimia per l’intera nazione.
Harlem è stato scritto da indifendibili fascisti militanti come Pietro Petroselli ma anche da fini intellettuali come Carlo Cecchi, l’ebreo Giacomo Debenedetti e il futuro sceneggiatore di Roma, città aperta (1945), Sergio Amidei. Questo gruppo eterogeneo attesta certamente l’egemonia e la coercizione ideologica fascista. Senza però dimenticarsi, per il nostro presente, lo scomodo ragionamento di Susan Sontag secondo cui il fascismo non è semplicemente sinonimo di “brutalità e terrore” ma include “ideali che resistono ancora oggi sotto bandiere diverse; . . . il culto della bellezza, il feticismo del coraggio, l’annullamento dell’alienazione in estatici sentimenti di comunanza; il rifiuto dell’intelletto; la famiglia dell’uomo (con i capi nel ruolo di genitori)”. Una lista che sembra tratta da Harlem.