Nell’osservare da vicino i ruoli interpretati da Henry Fonda a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, ci si rende presto conto di quanto sia riduttiva una generica descrizione di questo come interprete dell’integrità morale. Perché più si osserva Fonda, non solo nella tridimensionalità teorica dei suoi ruoli ma anche nella sua fisicità rivelatrice, più ci si rende conto che l’integrità spesso desunta è in realtà un bruciante desiderio dell’individuo di riscattarsi. L’individuo fondiano di questi anni è sì aiutato da un certa disposizione naturale verso l’aspetto morale di ogni suo atto (i personaggi in questione sono tutti ben consapevoli delle ricadute dei proprio gesti verso chi gli sta intorno, che si tratti di un fuorilegge o del futuro presidente), ma il suo riscatto e la conseguente affermazione di moralità si rendono necessari solo per una particolare circostanza: per riportare in ordine ciò che precedentemente era stato sconvolto.

Se si va oltre la retorica dei discorsi alle folle e si osserva il vero motivo che lo spinge ad agire, Fonda non è qui l’ideale american hero pronto a lottare per ciò in cui crede ad ogni costo, ma un uomo che è o sconvolto dagli eventi che gli capitano (Sono Innocente, Furore) oppure è indignato per l’assenza, nella sua personale quotidianità (L’uomo questo dominatore) o all’interno di una comunità (Alba di gloria) della facoltà di auto-affermarsi. Ma è comunque una questione di invasione di campo, a cui si deve per forza rispondere: l’ingiustizia tocca la sicurezza del proprio vivere, sconvolge le abitudini e mette in crisi le facoltà liberali. E allora ecco la lotta del singolo per sé stesso. O al massimo, in nome del singolo.

Di integrità morale ce n’è infatti ben poca nel suo Eddie Taylor di Sono Innocente (1937) di Fritz Lang. Portato alla più profonda fragilità attoriale grazie alle pressioni di Lang, Fonda interpreta qui un ex galeotto pronto a rifarsi una vita nei limiti della legge. Eddie è un good man, ma a causa della sua reputazione passata viene prima incastrato per un crimine non commesso e poi tragicamente spinto ad uscire dalla legalità per affermare la sua innocenza. Non c’è nessuna gloria nella lotta di Eddie, ma solo la rivelazione di un grande paradosso: il paradosso della moralità delle istituzioni, piene di parole rette ma lontane dagli individui, spinti quindi ad agire secondo la loro personale idea di ciò che è giusto.

Non si lotta per una comunità, per un riscatto collettivo: e anche se potrebbe sembrare così in Furore (1940), se si osserva bene il Tom Joad di Fonda questo è privo di coscienza di classe, fuori da ogni discorso politico (si chiede chi siano quei rossi di cui tutti parlano) e afferma lui stesso di andare contro gli abusi di potere per una questione di pura naturalezza. È anche il crollo del mito democratico contro la freddezza del capitale: la proprietà non ha più senso, non è più tangibile, non è più una casa o un campo da coltivare, e il singolo non sa davvero contro chi lottare. Ma sa che deve fare qualcosa. Così la speranza, schiacciata, rifiorisce nell’istinto di sopravvivenza.

Se il Fonda fordiano agisce in nome dell’auto-affermazione, non sono diverse le intenzioni che lo spingono nel precedente Alba di gloria (1939) e nella commedia di Elliott Nugent L’uomo questo dominatore (1942), qui rese però più razionali e consapevoli al personaggio stesso. Ritratto di Abraham Lincoln nei suoi primissimi tempi come avvocato a Springfield, in Alba di gloria difende due fratelli dal linciaggio di una folla inferocita. Lincoln non sa se i suoi clienti sono davvero innocenti, ma ciò che non tollera è la mancanza di rispetto verso la legge: e questo a prescindere dal risultato del processo, dalla sorte dei suoi clienti. Fonda fa a botte, è provocatorio, è ironico ma saggio, e il suo agire è in fondo anche una questione di riscatto personale, e portatore di un certo umanesimo tipicamente alla Ford. Proprio come in L’uomo questo dominatore, dove interpreta un professore universitario minacciato di licenziamento per avere espresso la volontà di leggere in classe le ultime parole dell’anarchico Bartolomeo Vanzetti. Anche qui la sua lotta e la finale affermazione della moralità sono in nome della libertà personale, ribadita con roboanti parole davanti a una folla ma determinate dal bisogno di risolvere un suo problema intimo (il rapporto con sua moglie), e comunque mai sbilanciate verso la pluralità.

Negli anni in cui il cinema hollywoodiano lotta contro gli effetti della Grande Depressione, Fonda risponde con ruoli in cui è l’affermazione della dignità del singolo a guidarne ogni gesto: capace di ritratti paranoici, sfumature comico-ironiche e fermezza drammatica, si fa in questi anni paladino dell’individualismo, della lotta necessaria contro una società che di quei valori avrebbe dovuto farsi promotrice.