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“Il mio nome è Nessuno” e il canto del cigno della mitologia western

Bellissime e significative le scene che dipingono l’eterno inseguimento in bilico tra realtà e miraggio tra Beauregard e il Mucchio Selvaggio, che ricordano quasi la vana attesa de Il deserto dei Tartari, simbolo di un genere ormai maniera, che insegue solo la propria coda. A scanso di spiegoni nebulosi un po’ gattopardeschi come quello che chiude il film, è questa sensibilità meta-filmica a rendere Il mio nome è Nessuno un film profondo, nonostante i suoi molti difetti; l’ultimo film western di Sergio Leone, se lo si vuole intendere suo, è il definitivo canto del cigno della grandiosa mitologia della presa dell’Occidente.

Henry Fonda: in nome dell’individuo

Se si va oltre la retorica dei discorsi alle folle e si osserva il vero motivo che lo spinge ad agire, Fonda non è qui l’ideale american hero pronto a lottare per ciò in cui crede ad ogni costo, ma un uomo che è o sconvolto dagli eventi che gli capitano (Sono Innocente, Furore) oppure è indignato per l’assenza, nella sua personale quotidianità (L’uomo questo dominatore) o all’interno di una comunità (Alba di gloria) della facoltà di auto-affermarsi. Ma è comunque una questione di invasione di campo, a cui si deve per forza rispondere: l’ingiustizia tocca la sicurezza del proprio vivere, sconvolge le abitudini e mette in crisi le facoltà liberali. E allora ecco la lotta del singolo per sé stesso. O al massimo, in nome del singolo. Negli anni in cui il cinema hollywoodiano lotta contro gli effetti della Grande Depressione, Fonda risponde con ruoli in cui è l’affermazione della dignità del singolo a guidarne ogni gesto: capace di ritratti paranoici, sfumature comico-ironiche e fermezza drammatica, si fa in questi anni paladino dell’individualismo, della lotta necessaria contro una società che di quei valori avrebbe dovuto farsi promotrice.

I “frutti dell’ira”. La collaborazione tra John Ford e Henry Fonda

A sentire certi discorsi, chi non avesse mai visto un suo film potrebbe immaginarsi una presenza calda e stabile nella sua equanimità, un altro Gregory Peck. Invece Fonda è un interprete tutto emotivo, il cui algido autocontrollo si incrina continuamente di spiragli nervosi, rabbia, sconforto, in una dialettica vibrante che denuncia l’investimento totale nei ruoli prescelti, spesso (come ricorda ancora Horwarth) non esenti da un certo autobiografismo. Fonda non corrisponde mai astrattamente a un’idea o a una causa, ma le incarna con furia bruciante, ossessivamente, tornando a esplorarle da tutti gli angoli. Si pensi al tema dell’esecuzione imminente, rinviata, a volte scongiurata e a volte ineluttabile (da Alba fatale a La parola ai giurati): i biografi lo riconducono a un episodio traumatico dell’adolescenza, quando il padre lo portò quattordicenne ad assistere al linciaggio dell’afroamericano Will Brown durante i moti razziali di Omaha del ‘19.

“Sono innocente” di Fritz Lang al Cinema Ritrovato 2020

La meraviglia di Sono innocente sta tutta nella regia di Lang, che sa costruire una tensione drammatica nelle sequenze d’interni più che in una narrativamente superflua fuga in macchina; che sa dedicare ai suoi protagonisti dei primi piani meravigliosi; che sa rendere le luci e le ombre riflessi di uno stato psicologico (Eddie in cella prima dell’ultimo pasto) o elemento scenografico caratterizzante i personaggi (il dialogo tra Joan e il prete, con un’ombra che disegna una croce sulla sedia); che sa infondere un profondo simbolismo a gesti e angolazioni di ripresa; che sa usare anche il sonoro come strumento drammaturgico (il colloquio attraverso il vetro); che, infine, sa rendere una contrapposizione tra bene e male, tra uomo e società, meno banale e dualistica di quanto sembri.

“Sergente immortale” di John Stahl al Cinema Ritrovato 2018

Se i melodrammi diretti da John M. Stahl si distinguono per i loro toni pacati e limpidamente composti, le sporadiche incursioni del regista in altri generi non fanno che confermare la sua avversione per un’epica chiassosa e roboante, a vantaggio di una vena elegiaca piuttosto feconda: così, quando nel pieno della Seconda Guerra Mondiale la 20th Century Fox gli commissiona un combat movie di propaganda anti-nazista, Stahl schiva saggiamente l’epopea collettiva, e vira il suo canto patriottico nella parabola individuale di un intellettuale chiamato suo malgrado ad assumere il comando di un manipolo di commilitoni. La guerra e le sue atrocità non entrano mai veramente in campo in questo film di sopravvivenza, incentrato su un gruppo di soldati britannici che, partiti in una missione di ricognizione, subiscono un attacco aereo e si ritrovano dispersi nel deserto nordafricano.

Cinema Ritrovato 2017: “La più grande avventura”

In sala per il penultimo giorno di festival, restaurato nell’originale formato 35 mm, La più grande avventura (1939) di John Ford offre l’occasione di riscoprire un classico interpretato da fedelissimi (Henry Fonda, Ward Bond, John Carradine) e con un ruolo tutto particolare nel percorso del regista; si inscrive – in maniera problematica – tra i Ford animati dal mito di fondazione della civiltà americana; film come questo o La carovana dei Mormoni sono storie non di sceriffi e banditi ma di Terre Promesse, non di duelli ma di campi dissodati, nascite, danze gioiose e sfrenate come riti pagani della fertilità.